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Il capocomico ha perso il copione
L'Unità – Ora è ufficiale: chi urlava contro il
teatrino della politica era il capocomico. Sì, lui, Silvio Berlusconi.
Dopo avere scagliato per anni sdegno e contumelie contro la politica
fatta di rituali e liturgie, di mosse e contromosse in un universo
perfettamente prevedibile, il capo del governo è uscito allo scoperto.
Ha svelato agli italiani che l'esecrando teatrino era il suo habitat
naturale, anzi l'unico suo habitat possibile; e che il segreto stava
nel recitarci sopra facendo finta di essere da un'altra parte. Era
bello, e anche produttivo, navigare in quella vasca da bagno fatta di
ritocchi fotografici, di slogan, di promesse impossibili, di calze di
nylon sulla telecamera, di cartelloni pubblicitari, di tivù
servizievoli, di comunicati stampa. Bello e anche produttivo navigare
in quella vasca da bagno fatta di soliloqui da Vespa e da Costanzo, di
sviolinate da Fede e compagnia.
Di mirabolanti contratti con gli
italiani, di sondaggi trasformati in programmi elettorali, di
dichiarazioni provvidenziali di banchieri o confindustriali o
presidenti emeriti. Ogni cosa era al suo posto, come in un copione da
recitare mille volte, nella parte, più visibile per tutti, del
capocomico di talento. Con i testi scritti da sceneggiatori anche loro
di talento e perfino di cultura. Anche l'avversario stava scolpito nel
copione. Un bel comunista pronto a trattare, così da godersi due
piccioni con una fava (il passato comunista e la disponibilità a
negoziare); e accanto a lui un comunista duro e puro, non disposto a
negoziare ma dispostissimo a criticare l'ex comunista e a far parlare
bene dei comunisti di un tempo, che erano più seri e più idealisti (ma
naturalmente sempre comunisti). Varianti del canovaccio: un grappolo di
ex democristiani «amici dei comunisti» e comunque espressione «della
prima Repubblica»; i magistrati, tutti integranti (con sforzi sempre
più erculei, in verità) lo stereotipo della toga rossa. Perfetto. Tutto
si teneva. Anche grazie agli altri attori, che qualche sintonia con il
capocomico comunque la provavano. In parlamento vince chi ha più mani
da alzare. E lui, avendo vinto le elezioni, ne aveva di più. Quelle che
si alzavano più spesso le decorava pure con un orologio natalizio. Era
il teatrino della politica in cui Berlusconi sapeva sempre cosa dire e
cosa fare.
Poi un bel giorno, poco tempo fa, l'Italia non è stata
più un teatrino. Il popolo, questa entità vista dal teatrino, da tutto
il teatrino, come un immenso pubblico di spettatori, si è alzato dalla
platea e ha incominciato a recitare pure lui. Migliaia, poi decine di
migliaia, poi centinaia di migliaia, poi milioni di persone, hanno
incominciato a muoversi in lungo e in largo per il paese.
Manifestazioni, comizi, girotondi (ma sì, girotondi), marce,
spettacoli, convegni. Spesso per iniziativa di cittadini qualunque.
Tante volte assecondando la fantasia di donne – giovani e non – senza
alcuna esperienza. Addirittura senza che si vedesse una bandiera rossa;
e anzi con fischi per chiunque intendesse piantare sui raduni un
qualsiasi vessillo di partito. Uno scenario pazzesco, totalmente
imprevisto dal catechismo del perfetto Berlusconi.
Il
capocomico ha avuto all'inizio il sostegno degli altri attori, che al
teatrino erano e sono (per la maggior parte) molto affezionati. Ulivo
in pezzi, sinistra in crisi e allo sbando, infantilismi privi di senso,
settarismi e massimalismi. Il paese vivo ha rotto gli argini. Le tivù e
le questure hanno ridotto i numeri dei partecipanti, qualche primario
quotidiano ha ingoiato perfino pressioni per ridurre e rimpicciolire le
foto aeree degli assembramenti. Ci si sono messi (indisturbati) anche i
terroristi. Niente, non è servito a niente. Sindacati uniti, partiti
costretti ad abbozzare, i giovani che dilagano e senza più tute bianche
alla testa dei cortei.
Il capocomico non ha saputo più che
fare. Conferenze stampa a reti pubbliche unificate e megashow sulle sue
reti private. Senza copione ha detto cose da pazzi. Farneticanti anche
se lucide, come venivano definiti i volantini bierre di venticinque
anni fa. Ha straparlato di piazze e di pistole. H
a trattato i
suoi ministri come degli scimuniti. Ha ricordato, il nuovo De Gasperi,
il glorioso 18 aprile del '46 (quando si dice l'ignoranza al potere).
Ma, al di là delle parole folli, neanche inondare il video gli servirà.
Usa le tivù per dominare? I cittadini usciti di platea, questi
screanzati, già gli preparano l'affronto più atroce: lo «sciopero delle
tivù» del 20 aprile. Perciò il capocomico annaspa e rivorrebbe tanto il
suo teatrino.
Quel che è incredibile, in questo panorama
effervescente, è che il teatrino vogliano ansiosamente restituirglielo
proprio alcuni dei suoi avversari. I quali si affannano a gettar dubbi
e diffidenza sui movimenti civili e sociali in corso. Verità
assolutamente ovvie – ad esempio che occorrono proposte politiche in
grado di dare sbocco alla protesta – vengono calate sulla testa dei
manifestanti con una spocchia che vorrebbe declassarli, per quel loro
rumoreggiare, a pietosi anche se volonterosi dilettanti, sostenuti da
politici altrettanto dilettanti. Insomma: il genio politico contro
l'assenza di strategia. Come se la strategia, il fulcro della nuova
strategia non fosse stato proprio quello di uscire dal teatrino che
asfissiava, e su questa scelta ricostruire identità, progetti,
linguaggi, alleanze e processi politici. Diciamo le cose come stanno.
L'alternativa non è tra pensiero e piazza, ma tra piazza e teatrino.
L'alternativa non è tra progetto e indignazione, ma tra indignazione e
rassegnazione. E viste le tante clamorose assenze dalle aule
parlamentari, l'alternativa non è nemmeno tra istituzioni e piazza, ma
tra presenza e assenza. La «piazza», questa vita di popolo che fluisce
e arriva e parla ovunque, non nega infatti né il progetto né le
istituzioni. Può esserne anzi la nuova linfa. Semplicemente il copione
non c'è più. Qui è Rodi, qui salta. E questo vale per tutti.
mcmellon
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