L’Italia civile rifiuta l’anestesia

L'Unità – Quando il gioco si fa duro i duri cominciano
a giocare. Forse i falchi di governo e Confindustria pensavano di
essere gli unici seguaci di questa gladiatoria massima di vita. Ma c'è
una parte dell'opposizione che sta dimostrando di saperla fare propria.
Che non è disposta a trasformare il rispetto per le istituzioni, per il
buon senso, per la buona educazione, in spirito imbelle o in
sottomissione politica. Ad accettare che la questione televisiva possa
risolversi nella conta delle mani da alzare in parlamento sulla
vergognosa legge sul conflitto di interessi.

Perché avere vinto le
elezioni (fra l'altro, ricordiamolo sempre: con i voti di una minoranza
del popolo italiano) non dà a nessuno il diritto di scardinare i
principi di fondo della democrazia.

Il movimento che è sorto in
queste settimane contro la logica del dominio per via televisiva
corrisponde a una diretta assunzione dei termini del problema da parte
dei cittadini. La giornata dell'altro ieri, con la mobilitazione
nazionale «spegni la tivù, accendi la libertà», ha rappresentato un
importante punto di partenza per una battaglia senza precedenti. Che
prevede, dopo l'invito provocatorio a spegnere lo schermo per un
giorno, una lunga campagna di opinione in favore dei mezzi alternativi
di informazione, cultura e intrattenimento. E un boicottaggio
organizzato – soprattutto per via telematica – di reti e programmi che
primeggino per la loro qualità spazzatura o per la loro dose di
servilismo verso il potere, ossia per essere diversamente funzionali a
quella pervasiva logica di dominio. Obiettivo? Colpire la convenienza
economica di quelle reti e di quei programmi, sottraendo loro
spettatori e, per conseguenza, investimenti pubblicitari. Senza pagare
alti prezzi, se è vero che ogni ora di televisione è un'ora ben spesa
se si tratta di buona televisione; ma è un'ora doppiamente sprecata se
trasmette cultura da basso impero e aliena da più utili forme di
impiego del tempo libero.

Umberto Eco è entrato in questo
dibattito con una proposta accattivante: boicottare, anziché la tivù in
generale, tutte le merci pubblicizzate su Mediaset. In questo modo si
sbriciolerebbe l'impero economico del capo del governo, visto che
sarebbero ben poche le merci in grado di rinunciare (potenzialmente) a
una metà dei propri consumatori. In più la proposta avrebbe il
vantaggio di non costringere a rinunciare ad alcun programma poiché
anche il più osceno dibattito o spettacolo ha il pregio di insegnare
qualcosa sulla cultura, sul modo di pensare, sull'antropologia di chi
detiene il potere o ne è zelante servitore. Non vi è dubbio che si
tratti di una proposta (sì, proposta; perché sia chiaro che ormai non
siamo più alle cosiddette – e innocenti – provocazioni intellettuali)
dotata di una logica stringente. Mi sembra però che essa abbia un
limite; che vorrei indicare all'interno di una discussione totalmente
aperta. Ed è che la questione televisiva si pone irrinunciabilmente
anche per il servizio pubblico. Anzi, è oggi esplosa proprio «sul»
servizio pubblico. Perché non dovremmo interferire sulla convenienza
economica anche dei programmi Rai? Perché non interdire, con una
purissima logica di libero mercato e non con ordini dall'alto, le
carriere e i successi di maggiordomi e vallette del potere o degli
architetti delle volgarità più insostenibili? E al contrario: perché
punire le professionalità libere (che ci sono) operanti in Mediaset?
Non si rischia di colpire – anziché la logica del dominio per via
televisiva – il peccato originale della proprietà dell'azienda per cui
si lavora? Lo so, logica e proprietà sono storicamente intrecciate. Ma
mi pare che sarebbe più produttivo cercare per quanto possibile di
separarle; e di aprire tutte le contraddizioni possibili all'interno
del grande mondo mediatico. Utili anche i programmi peggiori? Certo,
studiare l'antropologia del potere attraverso questa o quella
trasmissione a volte è utile. Ma anche leggere un libro di inchiesta o
un bel romanzo o un saggio di Eco può essere più utile, che dire?, di
assistere a «Telecamere» o all'ennesimo dibattito su Cogne da Bruno
Vespa. Il consumo critico, in chiave di difesa e di attacco, questa è
la sfida partita sabato.

E in questa fase in cui movimenti sociali
(sindacali in testa) e movimenti civili si sviluppano incontrandosi a
più riprese, la sfida assume un rilievo e una «forza possibile»
evidenti. Per questo è augurabile che non si voglia, anche dall'interno
dell'opposizione, continuare a liquidare la protesta civile e culturale
con le acide battute fiorite in questi mesi. A volte si ha la
sensazione che la politica sia così disabituata ad avere a che fare con
i movimenti da pretendere da loro ogni volta, per accreditarli, una
proposta di legge, un progetto compiuto. Ma i movimenti, anche i più
grandi, nascono su bisogni profondi, grandi rifiuti, generose utopie. I
progetti, le riforme vengono dopo, sull'onda dei mutamenti intervenuti
negli atteggiamenti collettivi. Il ciclo di lotte del '68 non partì, in
fabbrica, con l'idea dello Statuto dei lavoratori. Né spostò consensi
elettorali nelle politiche del '72. Lo spostamento arrivò, ed enorme,
nel '75-'76, su un'onda lunga. Il movimento, cioè, non sottrasse subito
consensi all'avversario. Ma cambiò la cultura della propria parte. E,
cambiandola, ne aumentò la forza espansiva. Questo, come ognuno sa, sta
scritto in innumerevoli saggi su quel periodo. E non ci sarebbe bisogno
di ripeterlo se non ci si trovasse di fronte a questo singolare
fenomeno: l'accusa di inutilità scagliata di continuo contro i
movimenti odierni, colpevoli di non sottrarre subito consensi al fronte
berlusconiano. Sabato in realtà abbiamo avuto volti mai visti ai
girotondi o alle manifestazioni precedenti, file di anziani (al sabato
sera nel sud!) a firmare per Biagi e Santoro; sono nati nuovi simboli,
dal campanello (sveglia la coscienza) alla girandola (fai girare la
voce); in ogni città si sono accalcate oltre il previsto resse di
cittadini comuni vogliosi di testimoniare con nome e cognome contro il
licenziamento delle voci scomode. E, salva l'eccezione romana, ovunque
senza celebrità in campo. Ora, certo, tocca a chi ha responsabilità
politiche e parlamentari fare i progetti. Ma il contesto è cambiato.
Perché la sfida televisiva, comunque, è stata posta su un altro piano.

 

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