Parole come pietre? E’ la destra che le tira

L'Unità – La
grande scatola Biagi-Scajola-Cofferati-terrorismo nella quale si è cercato e si
cerca con accanimento di stipare e di annodare a filo doppio storie,
protagonisti e idee tra loro incommensurabili, manda nell'aria zaffate
minacciose. Per una ragione molto semplice: che in quella scatola rischia di
marcire l'idea stessa della democrazia. La democrazia è infatti una costruzione
che, prima ancora di comporsi di istituti di rappresentanza e di bilanciamento
dei poteri, ha come propria anima insopprimibile la piena libertà di parola.
Libertà di concepire la parola e di esprimerla. Libertà di dissenso e di
critica. Libertà di denuncia. Sulla libera comunicazione orale si è formata la
prima esperienza di democrazia, quella ateniese.

Sulla parola e sulla scrittura libera sono
cresciute le forme della democrazia moderna. Ebbene, oggi grazie al governo
della «Casa delle libertà» la libertà di parola si accinge a vivere una delle
crisi più acute della storia repubblicana. Il dissenso sindacale e il
terrorismo. La critica e il rifiuto di un accordo sindacale e il terrorismo. La
mobilitazione e il terrorismo. Il linguaggio della propaganda e il terrorismo.
Il Palavobis e il terrorismo. Tutto viene spinto fuori dai confini di ciò che è
moralmente, politicamente lecito.

Ma ci può essere un rapporto tra la parola
e il terrorismo? Certo. E chi è cresciuto con la generazione del Sessantotto lo
sa bene. Certe parole sono pietre. Un certo linguaggio può seminare idee e pratiche
terroristiche, uscire drammaticamente dalla sua «innocente» astrattezza. Sul
piano penale può anche non esserci una relazione. Ma chi negli anni Settanta
sentì lo stesso il dovere di riflettere e capire vide con orrore l'esistenza di
un legame «consequenziale» anche se per nulla necessario tra slogan sanguinari
e delitti; tra promesse di giustizia proletaria e vittime, loro innocenti per
davvero. Storia passata, ma che non va dimenticata. Per non ricaderci ma anche
per avere ben chiari i confini che separano il presente dal passato.

E per proporre due attualissime domande.
La prima: fu forse la profondità del conflitto a generare il terrorismo? No.
Furono piuttosto le ideologie e le ambiguità dominanti in quel conflitto (oggi
del tutto residuali ) a preparare – per una esigua minoranza – lo sbocco
armato. La seconda: fu solo nel dispiegamento del conflitto che prese forza il
terrorismo? No. Molti osservatori, specie quelli di scuola garantista e
liberalsocialista, teorizzarono anzi che fosse proprio la pace sociale imposta
dal compromesso storico a moltiplicare le spinte eversive (tesi della
«democrazia bloccata»). Il fatto è che una volta che – per molte condizioni
storiche – il terrorismo si dà forma e struttura, esso ragiona poi con una sua
logica autonoma. Colpisce nel conflitto per innescarne i circuiti perversi;
esattamente come colpisce nella pace sociale per legittimarsi di fronte ai
«traditori» socialdemocratici. E infatti D' Antona venne ucciso in un clima di
dialogo sociale, puntando per di più sulle contraddizioni aperte dall'appoggio
italiano alla guerra contro la Serbia. Chi sono dunque i colpevoli «morali»
delle imprese terroristiche? I sindacalisti della pace sociale o i sindacalisti
del conflitto? I «traditori» o i «massimalisti»? Basta rifletterci un attimo,
ma proprio un attimo, per capire come la pretesa di affibbiare a un
comportamento sindacale o politico la responsabilità oggettiva del terrorismo
sia a dir poco raccapricciante: un limpido attentato alla libertà individuale e
collettiva.

Oggi la discussione si avvita poi intorno
ad alcuni casi concreti. Cofferati ha detto «patto scellerato». Si può dirlo?
Sì. Si può condividere o no nel merito la definizione, si può pensare che
sarebbe più appropriato un altro termine, ma un leader sindacale, se ritiene
che venga toccato un diritto cruciale dei lavoratori, ha la facoltà di dirlo.
Se esagera, se mente, ha davanti a sé un governo che ha il pieno controllo dei
mezzi d'informazione; e che ha dimostrato di non avere alcuno scrupolo nel farne
uso e abuso (basti vedere la vicenda Scajola o la recente pantomima del nuovo
miracolo economico). Un governo che gli farà ricadere addosso l'accusa con
forza uguale o maggiore di quella con cui egli l'ha lanciata. È un po' lo
stesso problema che viene posto (anche da sinistra, complimenti!) verso chi usa
la parola «regime». Si sostiene che l'uso stesso della parola spianerebbe la
strada alle pistole. Se siamo in un regime, si dice, che altro resta da fare se
non sparare? Incredibile. Come se ci fosse qualcuno che parla di regime armato
o di dittatura militare. Come se non si facesse riferimento alle particolarità
del sistema politico-mediatico che ci stanno allestendo sotto gli occhi. Come
se, peraltro, lo stesso dissenso non abbia saputo evitare il ricorso alle armi
perfino sotto un regime armato (si pensi all'esperienza cecoslovacca, fra tutte
la più ricca di forme pacifiche di opposizione). Il fatto è che la parola, la
parola poco compiacente, la parola che schiocca la denuncia netta e chiara, è
diventata una nemica della maggioranza. Non contenta del controllo
dell'informazione, quest'ultima vuole spingersi oltre, sempre più oltre. E
pretende di identificare la parola del dissenso e dell'opposizione radicale con
le pistole fumanti dei terroristi. Eppure, se questa dovesse essere la strada,
bisogna dire che quanto a parole nessuno è più radicale dei membri dell'attuale
maggioranza. Ricordate il Berlusconi che diceva che l'Ulivo vinceva (come le
dittature latinoamericane, giusto?) con i brogli elettorali, e anzi che se
avesse rivinto l'Ulivo non si sarebbe più andati a votare (quale regime più
plumbeo di questo…)? E allora, come non pensare che l'attentato neofascista
al «Manifesto» non fosse il frutto di una prolungata campagna di odio contro
quella sinistra «comunista» in procinto di instaurare una bella dittatura? E
che dire delle parole di Bossi, di Borghezio e soci contro gli immigrati,
privati nella propaganda padana di ogni dignità di uomini? Come non pensare che
sia assolutamente naturale che proprio nella più leghista delle provincie,
quella di Varese, un imprenditore (una partita Iva) dia fuoco e morte
all'operaio immigrato che osa chiedergli un aumento?

Le parole, le parole. Le parole sono
pietre perché alcune di esse possono davvero, a furia di lanciarle per aria,
ricadere come massi sugli innocenti. Ma, al tempo stesso, le parole sono pietre
perché con molte di loro, la quasi totalità, si costruisce ogni giorno la
grande casa della democrazia. Oggi il potere pretende piena licenza di usare le
parole del primo tipo; e vuole censurare, limitare, intimidire le parole del
secondo tipo. Qui, in questo stretto passaggio della storia non c'è solo Sergio
Cofferati. Ci siamo tutti noi.

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