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Indaga sulla mafia, scontenta Forza Italia
L'Unità – Solo questa ci mancava. Avevamo visto magistrati accusati
di partigianeria politica e di comunismo per avere indagato sui reati commessi
da ministri o parlamentari. Avevamo visto carabinieri accusati di essere
«deviati» per avere indagato sullo spaccio di droga al ministero dell'Economia.
Avevamo visto ignorate le note dei Servizi sui possibili bersagli del
terrorismo rosso, e poi accusato di essere «un rompicoglioni» uno di quei
bersagli colpito a morte. Due giorni fa, martedì, abbiamo visto il capo dei
Servizi accusato di avere nei propri uffici «la nuova mafia» per avere voluto
tutelare l'incolumità di due parlamentari un po' ingombranti della maggioranza,
Cesare Previti e Marcello Dell'Utri.
È accaduto a palazzo San Macuto, commissione Antimafia.
Convocato per un'audizione segreta, il generale Mario Mori, comandante del
Sisde, ha tracciato in mattinata un quadro circostanziato della mafia in
Sicilia oggi. Lo ha fatto connettendo tra loro in una ricca articolazione di
ipotesi e deduzioni logiche gli elementi investigativi in suo possesso.
Senonché, di fronte a lui, si è materializzata
d'improvviso l'ennesima scena della fantastica tragicommedia del potere che va
in onda nell'Italia del 2002. Il generale Mori infatti è stato messo
repentinamente sotto accusa da un senatore della maggioranza, il quale ha
garantito di esprimere opinioni condivise da molti dei presenti (non dal
presidente della commissione Centaro, a onor del vero, che ne ha preso subito
le distanze). La ragione dell'accusa? La nota stesa verso metà luglio dall'intelligence
del Sisde circa i rischi corsi dai due sunnominati parlamentari di Forza
Italia. Quella nota infatti, come si ricorderà, sottolineava lo stato di
estrema tensione esistente tra i gruppi mafiosi in carcere nei confronti di
quegli esponenti politici ritenuti infedeli alle promesse elettorali, con
specifico riferimento al 41 bis. Tensione ribadita dal noto proclama lanciato
da Leoluca Bagarella nel bel mezzo di un'aula di tribunale proprio in quei
giorni. La nota si preoccupava dunque di individuare con la dovuta precisione i
possibili destinatari di una strategia mafiosa di vendetta e intimidazione, e
giungeva a indicare Previti e Dell'Utri come bisognosi di una specifica tutela
personale. «Stavolta niente eroi» era stato detto negli ambienti di Cosa Nostra
tenuti sotto controllo. Da cui, per una serie di argomentazioni logiche, la
convinzione che sarebbe stata forte la tentazione di colpire sì in alto ma tra
persone che fossero o potessero apparire compromesse con la mafia.
Diciamo la verità. La nota era stata assolutamente
neutrale e rispettosa verso l'identità dei due parlamentari ritenuti a rischio.
E lo stesso Mori lo è stato l'altro ieri. «Potessero essere ritenuti» non è
un'accusa. È un modo molto elegante e neutro per dire che se bisogna misurare
le distanze, altri politici hanno sicuramente una distanza maggiore dagli
ambienti, dalle frequentazioni o anche solo dagli interessi oggettivi della
mafia. In fondo Dell'Utri, richiesto di un suo parere sull'esistenza della
mafia dopo i grandi omicidi, rispose beffardamente e testualmente «se esiste
l'antimafia vuol dire che esiste la mafia». O no? In fondo sempre Dell'Utri ha
un processo in corso a Palermo proprio per i suoi possibili rapporti con
esponenti di Cosa Nostra. Eccetera.
Ma questo alla pattuglia di senatori della maggioranza non
bastava. Ma come si era permesso il generale Mori di preoccuparsi, in base ai
suoi ragionamenti, di individuare proprio loro come parlamentari a rischio? Che
cosa voleva insinuare? Voleva forse lui, con astuzia luciferina, dipingere a
tradimento i due come «mascariati», ossia nel linguaggio mafioso come
compromessi?
Era imbarazzante vedere il generale, ricco di esperienza e
noto da decenni per il fiuto investigativo; era imbarazzante vedere il
carabiniere che proprio l'attuale maggioranza aveva «giocato» contro Giancarlo
Caselli quando era alla guida del Ros, facendone (abusivamente) un proprio
simbolo contro le toghe rosse di Palermo; era imbarazzante, dicevo, vedere
questo servitore dello Stato costretto quasi a discolparsi. A dire che Previti
e Dell'Utri erano stati individuati solo in base alle campagne di stampa
«massicce» e «vivaci» condotte contro di loro. Che lui non aveva disegnato
alcuno scenario in proprio e si era solo preoccupato di spiegare a chi di
dovere perché bisognava tutelarli meglio. Proprio Mori che aveva con esattezza
indicato (invano) dove i brigatisti avrebbero colpito. Era imbarazzante perché
con ogni evidenza la sua azione, se motivata con riferimento a quei nudi fatti
che un investigatore deve prendere in considerazione, sarebbe stata definita,
come lo è stata, «parte di un copione», frutto di «uffici e intelligenze che
sono la nuova mafia, quella delle strategie destabilizzanti, quella che fa
saltare le borse».
Inutile dire che non sono mancate le accuse di violazione
della riservatezza per il fatto che la nota del Sisde (andata in due giorni a
tutte le questure in virtù delle attuali procedure) sia finita sui giornali.
Altrettanto inutile dire che la commissione in cui è stata fatta balenare
questa accusa è la stessa dalla quale, in tempo reale, sono subito uscite in
giornata le informazioni operative che dovevano rimanere segrete.
Forse è però utile sapere, per chi crede nello Stato, che
il generale Mori ha ribadito di dipendere dall'esecutivo e di avere dei doveri
verso il governo. E che pur spiegando di avere ovvie difficoltà di
comunicazione in quel contesto, alla fine ha aggiunto con orgoglio di
carabiniere: «Ho fatto il mio dovere e lo rifarei». Sì, perché della
tragicommedia del potere che va in onda nell'Italia del 2002, in definitiva,
questi sono esattamente gli ingredienti fissi. Da una parte il senso del dovere
imparato in decenni di servizio; dall'altra la pretesa di rovesciare la realtà
con un ordine politico, con una intimidazione, con una accusa protetta
dall'impunità. Le persone cambiano, lo schema no.
mcmellon
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