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Cosa Nostra scoppia di salute
L'Unità – L'antimafia, dice il governo. La mano dura con il crimine
organizzato, ribadiscono i suoi cantori. Eppure le fantasie che scaturiscono
dalla realtà sono altre. Avete presenti gli orsi del luna park? Quelli che
vengono centrati dalle palle di stoffa dei giocatori e, una volta colpiti e
stesi, si rialzano ondeggiando e brontolando? Così, più realisticamente, appare
oggi lo Stato davanti alla mafia. Lo si vede sempre lì, con le sue auto blu e i
suoi palazzi. Ma indietreggia o ruzzola davanti alle pressioni o agli spintoni.
Poi si rialza, si aggiusta la cravatta e riappare al suo posto gorgogliando.
Non tira davvero aria tranquilla sull'atlante di Cosa
Nostra. Almeno questa è la convinzione di chi abbia maturato negli anni un po'
d'istinto davanti all'organizzazione criminale più potente del Paese.
Forse il ministro dell'Interno Giuseppe Pisanu, nella sua
pluridecennale esperienza politica, non ha ancora maturato questo istinto;
anche perché, per acquisirlo, occorre un certo allenamento di trincea. Ma certo
solo così si spiega il panorama soffice e ordinario che egli ha tratteggiato
l'altro ieri in Commissione antimafia.
Non è colpa sua. Ha assunto il comando delle operazioni da
troppo poco tempo. Ma bisogna, assolutamente bisogna, dall'opposizione, indurlo
a fare qualche riflessione in più. No, lo scenario non è quello in cui abbiamo,
da un lato, i capi mafiosi in carcere, in via di blindatura grazie alla
stabilizzazione del 41 bis (il carcere duro), e dall'altro lato le cosche
straniere che sbarcano alla ricerca di fruttuose alleanze con i clan indigeni.
Sia chiaro: la nuova criminalità da immigrazione esiste per davvero ed è meglio
non nasconderla sotto il tappeto, magari brandendo demagogicamente la bandiera
dell'antirazzismo. Ma oggi le ragioni della massima preoccupazione non vengono
da quel fronte. Insomma: sarebbe bello potere dire che tra 41 bis e legge
Bossi-Fini la criminalità organizzata è destinata a prendere bastonate e a
declinare. Sarebbe bello, ma non è così.
È la nostra criminalità, piuttosto, che sta alzando la
testa, con tanta arroganza verso i cittadini e tanta prudenza verso il potere.
Attenta a non ripetere gli errori commessi, mentre lo Stato (ancora una volta)
rischia di rifarli tutti quanti: abbandono del controllo del territorio, somma
pigrizia nel reagire, vischiosità di analisi, delegittimazione delle
istituzioni più esposte, patti elettorali inconfessabili, complicità e omertà
all'interno del mondo politico.
Rialza la testa la camorra, più effervescente e diffusa
che mai, in una situazione che la commissione Antimafia si è ben vista
scodellare dettagliatamente da decine di testimoni nella sua missione
napoletana di giugno, e che le clamorose fratture interne alla magistratura
locale possono solo rendere più precaria. Ci sono novità nella penisola
salentina, in fondo a quella Puglia assente dalla relazione del ministro, là
dove hanno fatto il loro esordio le aggressioni armate contro gli imprenditori
operanti nel mondo degli appalti pubblici.
In Calabria sono gli stessi vescovi a lanciare l'allarme
davanti alla recrudescenza capillare della 'ndrangheta. E le vicende di una
città come Lamezia, con tanto di Consiglio comunale candidato allo
scioglimento, con fioritura di minacce e intimidazioni anche verso
parlamentari, sono un segno inquietante del logoramento in corso nel tessuto
sociale e istituzionale. Poi, perenne regina in campo, c'è la Sicilia. La
Sicilia in cui, come hanno rimarcato qualificati parlamentari dell'opposizione,
il questore di Messina dichiara di non conoscere il cognome degli Alfano,
storici boss che dovrebbero guastargli i sonni. O dove un membro del governo
distribuirebbe rassicurazioni circa la sorte dei beni confiscati alle famiglie
mafiose: non già destinati a usi sociali o pubblici ma alla vendita sul
mercato, credibilmente a beneficio delle stesse famiglie perseguite. Sì, la
Sicilia. Quella in cui oggi l'ex braccio destro di Bernardo Provenzano,
Antonino Giuffrè, sta riempiendo di dichiarazioni i verbali dei magistrati
palermitani, descrivendo la geografia dei rapporti criminali e gli intrecci tra
imprenditoria, mafia e politica. La Sicilia in cui non pare proprio che i clan reclusi
nelle carceri siano privi di gruppi di fuoco a loro fedeli, come ipotizzato
invece dal ministro.
Davvero quello che dobbiamo maggiormente temere in questa
situazione è dunque l'arrivo dei clan stranieri, quasi dovessimo praticare una
selettiva politica di "autarchia criminale"? Davvero il rischio
maggiore che corrono oggi le istituzioni è l'eventuale tentativo dei pentiti
(ci si cautela da Giuffré?) di "mascariare", ossia coinvolgere uomini
dello Stato? I rischi piuttosto sembrano altri, drammaticamente altri. La mafia
si è riorganizzata e ha ricostruito un suo sistema di referenti politici. Le
leggi che giungono dal Parlamento non fanno che aiutarla, almeno in quella sua
componente (assolutamente maggioritaria) che non sta dietro le sbarre, che fa affari
e organizza consenso. La Cirami è una manna, la Pittelli lo sarà. La produzione
normativa sulla contabilità e documentazione d'impresa, sull'ambiente, sul
fisco, è un messaggio chiaro e permanente, una ghiotta anticipazione
sull'Italia che è in cantiere: meno legalità e sostanziale impunità.
Il processo, come strumento di controllo giuridico, non
c'è più, è una buffa finzione, tranne che per i disgraziati a tolleranza zero.
Le leggi di favore, come quella votata ieri al Senato per riportare nel Consiglio
regionale campano Aldo Boffa, condannato in secondo grado per reati contro la
pubblica amministrazione e interdetto dai pubblici uffici con tanto di sentenze
della magistratura (e ovviamente su proposta di legge presentata dal suo stesso
avvocato sconfitto in tribunale), sono la cifra di uno Stato che si sta
squagliando, il cui territorio è perciò (sottolineo: perciò) appetibile anche
per i clan stranieri.
E nello Stato che si squaglia -come sua concausa o
conseguenza- si stampa l'immagine di un Viminale dove la tecnostruttura, il
gruppo di comando, sembra avere cambiato registro e linguaggio. Non è affatto
secondario, in questo clima, che la vicepresidente della commissione Antimafia,
Angela Napoli di Alleanza nazionale, abbia ammonito il ministro a non fare
offuscare la sua immagine dalle persone che lo circondano. O che il senatore
Carlo Vizzini, di Forza Italia, abbia evocato l'immagine del "garantismo
peloso" a proposito del 41 bis e delle future reazioni alle dichiarazioni
di Giuffré. Quando anche nella maggioranza le persone più indipendenti parlano
così, una spia si accende e occorre che ciascuno si assuma per intero le sue
responsabilità.
Sappia il ministro che il pericolo mafioso è ormai forte;
forte è il pericolo di guerre di mafia come di attacchi mafiosi allo Stato;
forte il pericolo di aggressione alla vita civile; forte anche il rischio di
uno sfruttamento sapiente della crisi economica. Né il 41 bis (pur necessario)
né la Bossi-Fini faranno argine contro la mafia che moltiplica gli affari e
stringe patti inconfessabili. Tanto più, ci si perdoni, se al Viminale c'è
puzza di bruciato.
mcmellon
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