Avvocato, deputato, gentiluomo

L'Unità – «Tutte le volte che sarà eletto un avvocato, egli, durante
tutto il periodo del mandato parlamentare, non dovrà esercitare la professione
legale». Chi l'ha detto, chi l'ha scritto? Quale nemico delle garanzie ha
potuto concepire un'idea tanto orripilante? Semplice. L'ha concepita l'articolo
3 dell' Agreement of the people, il patto costituzionale tra i cittadini che i Levellers
(l'ala democratica della Rivoluzione inglese) sottoposero a Cromwell nel 1647,
e che influenzò successivamente il provvisorio ordinamento repubblicano.
Insomma, quando nacque la democrazia parlamentare questo principio fu tra i
primissimi a farsi largo. Immaginato per garantire la funzionalità e il senso
stesso delle istituzioni parlamentari.

Se nella giovane vicenda delle democrazie esso non ha poi
trovato applicazione integrale è solo perché la storia degli avvocati nelle
assemblee elettive è stata in generale storia di professionisti dediti alla
difesa dei deboli, che hanno usato del loro prestigio e del loro ruolo per
temperare ingiustizie e disuguaglianze, o anche per difendere gli oppositori
politici dalla repressione del potere. Persone che hanno usato la propria
potestà legislativa per correggere le storture dei processi a vantaggio dei
cittadini meno abbienti. Non sempre è stato tutto così nobile. Ma certo mai, e
va sottolineato il «mai», si è prodotta in una democrazia parlamentare quel che
sta accadendo oggi in Italia. Il conflitto d'interesse degli avvocati è ormai
gigantesco quanto quello di Berlusconi. Essi decidono le leggi più utili a far
vincere loro i processi, minacciano interrogazioni parlamentari nei tribunali,
annunciano «riforme» per accrescere il loro potere a scapito di quello dei
magistrati, che è a tutti gli effetti, anche letterali, potere costituzionale.
Scrivono cioè norme volte a ricondurre alla fine la magistratura sotto il
potere politico, ossia sotto il proprio potere, dotati del quale essi
continuano a esercitare la professione. In grado – già oggi ma sempre più con i
provvedimenti in discussione o in arrivo in parlamento – di gestire
efficacemente meccanismi di premio-punizione nei confronti degli stessi
magistrati.

È un autentico delirio istituzionale. E certo si possono
muovere molte colpe all'opposizione in questa legislatura (anche se a volte la
tecnica dell'«incolpazione» sembra diventata il facile carro vincente per
rivendicare dall'esterno ruoli politici). Ma un'attenuante essa ce l'ha: di
trovarsi di fronte a qualcosa di assolutamente inedito, qualcosa che sulle
prime non sembra possibile e poi prende una forma mostruosa, ma che il
controllo governativo dell'informazione scoraggia dal denunciare con il dovuto
orrore. Intendiamoci, la novità della situazione non può essere un alibi. Ma
aiuta a capire l'incertezza dei passi e delle reazioni. Poiché il problema,
volendo guardare alla Cirami che torna in Senato, non è nemmeno tanto quello
della incostituzionalità formale di una legge; che nel caso specifico c'è,
resta ancora, ed è evidente come una casa. Il problema grande, immenso, è la
rottura avvenuta rispetto a quel «non detto» – un non detto politicamente sacro
– che sta alla base di ogni Costituzione. Potevano mai i padri costituenti
immaginare che gli avvocati usassero il parlamento per farsi le leggi per sé,
per i propri personali processi in corso, nei tempi a loro necessari per quelle
specifiche cause? Come potevano immaginare che un giorno le conquiste di libertà
della Resistenza avrebbero impunemente ospitato un così massiccio «interesse
privato in atti d'ufficio» avente per oggetto proprio la sostanza dello Stato
di diritto, ossia l'amministrazione della giustizia? Come potevano immaginare
di vedere un processo in corso modificato nei suoi esiti grazie a una legge
uscita materialmente dallo studio di uno degli imputati e guidata nelle sue
tappe parlamentari dall'avvocato dell'altro imputato? Come potevano immaginare
l'incredibile, ossia che un giorno il corso di un processo sarebbe stato
intenzionalmente modificato grazie al voto espresso lì, nel libero parlamento
disegnato dalla Costituzione, da avvocati difensori e imputati di quel
processo? Questa è l'infamia costituzionale. Che infatti si realizza facendosi
beffa tracotante della Corte costituzionale, ossia dell'organo posto a
specifica tutela della Costituzione. Questa è la profonda verità della Cirami.
Questo è il cuore della questione (lo Stato, in che Stato viviamo) rispetto
alla quale dovrebbero scattare i meccanismi supremi di garanzia.

Anche perché l'affronto ha ormai innescato, nel delirio
che travolge ogni etica pubblica, altri processi degenerativi. Si è visto un
deputato, Antonio Russo, unico firmatario di una legge fatta apposta per il
consigliere regionale da lui direttamente difeso in Cassazione; e lo si è visto
farla passare senza pudore in parlamento (facile, no?) così da cancellare le
sconfitte giudiziarie e riportare il suo assistito nell'assemblea elettiva
della Campania. Si vedono avvocati di quart'ordine che si fanno un nome (sta
accadendo in tutta Italia) svillaneggiando impunemente in aula i magistrati,
procuratori o giudici è lo stesso, tanto il clima è quello, al Capo piace così
e anche i giudici che stanno in alto si adeguano, perché il fiuto per il potere
è infallibile (almeno quanto lo è, però, per nostra magra consolazione, il
fiuto delle persone libere verso i vigliacchi).

In questo clima alcuni senatori del comitato «La legge è
uguale per tutti» hanno depositato la scorsa settimana una proposta di legge
che riprende, in forme assai più moderate, proprio il principio dell' Agreement
of the people della rivoluzione inglese.

La proposta, che ha significativamente come primi
firmatari due avvocati, Mario Cavallaro e Alessandro Battisti, stabilisce che i
parlamentari avvocati non possano difendere membri del governo o del
parlamento, né imputati per reati contro la pubblica amministrazione o di
criminalità di stampo mafioso. È una questione di decenza. I parlamentari che
partecipano compunti alla commemorazione delle vittime della mafia o lodano i
sacrifici delle forze dell'ordine in trincea e poi corrono a difendere (con
ricche prebende) gli imputati di mafia, magari facendogli anche le leggi su
misura, sono in effetti un po' troppo anche per gli osservatori più pazienti.
In attesa che si capisca fino in fondo a quale livello si pone oggi in Italia
la questione della costituzionalità delle leggi, questa proposta può essere il
punto di partenza per una grande controffensiva civile e culturale. E un punto
di riferimento per chi pensa che il nostro parlamento non possa comunque essere
venduto. Né per il cosiddetto pugno di dollari né in omaggio alla più grande
concentrazione di forze mai vista nella storia del Paese.

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