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Dell’Utri, bell’amico Berlusconi
L'Unità – Ma pensateci bene. Che cosa direste voi di un amico che,
sapendovi ingiustamente accusato, non si presentasse a testimoniare a vostro
favore nel processo in cui siete imputati? La vicenda
Berlusconi-Dell'Utri-magistrati palermitani presenta anche questo risvolto
umanamente inquietante, che illumina da una particolarissima angolazione lo
stato morale del paese e di chi lo governa. Su Marcello Dell'Utri pende
un'accusa mica tanto da ridere, concorso esterno in associazione mafiosa.
Un'accusa che può fare un baffo a chi, anche a sinistra, davvero non resiste
alla tentazione di frequentare il mondo che conta (spassosissimo, di recente,
un vademecum della poetessa Patrizia Valduga per informare preventivamente chi,
non resistendo alle sirene del potere, è – a cose fatte – sempre pronto a
spiegare con finto candore di non avere mai saputo che quel luogo o rivista o
cenacolo fosse «roba di Dell'Utri»).
Un'accusa che però, sul piano della reputazione politica e
civile e morale, qualcosa vuol dire. Ebbene, il presidente del Consiglio è da
tempi immemorabili amico dell'imputato-senatore. È stato da sempre suo stretto
compagno di avventura, in affari come in politica. Ha con lui rapporti di
intimità risaputa. E' Dell'Utri che gli trova il famoso stalliere di Arcore per
proteggerlo, si dice, dai sequestri di persona. È Dell'Utri che lo aiuta a
costruire Publitalia e Forza Italia. Eppure, quando è il momento di dimostrare
sul serio i carati di questa amicizia, il capo del governo tace, sceglie la via
del silenzio. Se capitasse a uno di noi di vedere ingiustamente accusato un
amico fraterno, ci documenteremmo, consulteremmo con pignoleria le nostre
agende, ci presenteremmo spontaneamente dai magistrati per dire che è
innocente, l'amico carissimo; e che lo sappiamo per certo, che se hanno dei
dubbi possiamo noi provare a fugare i dubbi; nei limiti, si intende, delle
nostre conoscenze. Le quali, per quanto circoscritte, potrebbero però essere
decisive per discolparlo, per rendergli l'onore. E viceversa, se fossimo noi
gli accusati ingiustamente, ci adireremmo di giusto furore verso l'amico che
non solo evitasse rigorosamente di presentarsi ai magistrati ma che
addirittura, da loro interpellato, si rifiutasse di difenderci.
È davvero stupefacente, a mente un po' fredda, quanto è
accaduto sotto gli occhi degli italiani. Un Berlusconi certo, assolutamente
certo della persecuzione subita dall'amico. Che tale persecuzione ha denunciato
pubblicamente con toni stentorei in mille sedi. E che poi quando può dirlo e
spiegarlo nelle sedi decisive sta zitto, rinnovando l'antropologia delle tre
scimmiette. Come farà d'ora in poi, il capo del governo, a sostenere
l'innocenza del senatore palermitano? Se, come io credo e come con tanta foga
sostiene la maggioranza governativa nei suoi programmi, viene prima la persona
dello Stato, la comunità prima delle istituzioni, il messaggio che ne arriva
sul piano umano è sconvolgente. Quello di un paese dove neanche i valori
primari della solidarietà e dell'amicizia tengono più, al di qua della legge.
E la legge? La legge, lei, latita anch'essa in abbondanza.
Può darsi infatti che il capo del governo non abbia voluto aprir bocca perché
non è poi tanto sicuro dell'innocenza tante volte gridata. Perché sa che
l'amicizia tra lui e Dell'Utri è cresciuta in spazi che non possono essere
(comunque) descritti senza produrre ombre, senza togliere da una parte quel che
si aggiunge dall'altra. La legge latita perché da oggi ogni adolescente a cui
si chiede di studiare educazione civica sa che un presidente del Consiglio
(così come ai suoi tempi il Cossiga presidente della Repubblica) può non
testimoniare davanti ai magistrati. Sa che il comportamento dei vecchi
contadini in coppola di Corleone – più e più volte mandati in onda da tivù
maramalde mentre spiegavano di non sapere niente e di non avere visto niente –
è andato al governo del paese. Chissà anzi se di fronte a questi pesantissimi
silenzi che tornano nella vita della Repubblica, vi sarà ancora qualcuno che
avrà voglia di spiegarci con fare da maestrino saccente che questo Paese ha una
storia tutta alla luce del sole. Chissà se saremo ancora bruscamente
catechizzati da chi non vuol sentir parlare di storia sotterranea, da chi
scomunica l'idea di una storia complementare (non «parallela») che scorre ai
limiti o fuori della legalità.
La legge. Strana e astratta entità in questa Italia che ha
promesso il grande cambiamento che ci farà felici. Precaria e nemica perfino
quando può onorare i rapporti umani. Nemica quando si fanno affari. Nemica
quando si fa politica. Quando si fa la Cirami. Ma anche quando si riscrive la
Costituzione, la nostra legge principale, la legge delle leggi. Cambiata, la
Costituzione, con uno schioccar di dita, pochi giorni e via, c'è fretta –
onorevoli – c'è fretta. Cassando come furie gli emendamenti. C'è in discussione
una sequenza di emendamenti che iniziano con la locuzione «fermo restando»?
Facile, si mette ai voti il «fermo restando», lo si boccia, et voilà, saltano
tutti gli emendamenti che iniziano con quella locuzione. In blocco. Direte: ma
«fermo restando» che cosa? E che cosa si propone dopo il «fermo restando»? Non
importa. Il potere emendativo del parlamento, potere costituzionale, non è più
un vincolo da rispettare neanche per cambiare la Costituzione.
Giorni fa – insisto, insisto, perché a nessuno è sembrato
grave – un senatore della opposizione è stato sostituito da un senatore della
maggioranza con un voto, ovviamente, a maggioranza: dichiarato «ineleggibile»
non dopo un conteggio più accurato dei voti ottenuti nel maggio del 2001, ma
dopo un'analisi «probabilistica» di un campione di voti. Come se con questi
criteri (ossia conteggiando i voti per campioni) si potessero da domani
eleggere i rappresentanti del popolo.
Su questo sfondo si agitano e parlano e declamano
Baldassarre e Albertoni (assessore regionale, cose da pazzi…), e gli altri, i
tanti altri della colorita carovana. Fra alluvioni, terremoti, crisi e venti di
guerra la Berlusconi Band continua a suonare. Nell'anarchia rivendicata dalle
legioni di orchestrali c'è del metodo. Questo bisogna ammetterlo.
mcmellon
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