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Il dialogo del Padrino
L'Unità – Ricordate? Nel «Padrino» di Francis Ford Coppola la scena
è la seguente: il vecchio patriarca dei Corleone in declino (Marlon Brando)
consegna prima di morire la sua ultima saggezza al figlio (il giovanissimo Al
Pacino). E alludendo ai Barrese, il clan in ascesa con i quali è in corso una
faida all'ultimo sangue, lo avverte: «Ti inviteranno a un incontro per fare la
pace. Se tu ci andrai ti uccideranno. E chi te lo proporrà offrendosi come
garante, quello è il traditore».
Famiglie mafiose, certo. Use a ragionare con le armi. Ma
quella logica di «pacificazione», ovviamente depurata della sua violenza, non è
per nulla estranea alla vita civile e politica, specie quando questa sia
affollata di protagonisti ad alto tasso di spregiudicatezza. Che è l'attuale
caso dell'Italia.
Dove, se non si è ciechi o sordi (o servi) è arduo
sostenere che di spregiudicatezza se ne veda in modica quantità. Ce n'è,
invece. E tanta. E chi fa politica rappresentando dall'opposizione milioni di
italiani ha il dovere di tenerne conto. Nel battersi come nel fare accordi.
Proprio per non tradire o umiliare il mandato che gli è stato affidato.
Dove il potere presenta insomma un «surplus storico» di
spregiudicatezza, risulta ben strampalata questa infinita discussione sul
«dialogo tra i Poli». Così come è singolare l'invito che giunge all'Ulivo (e
regolarmente e solo all'Ulivo) ad abbassare la guardia, ad andare a vedere, a
creare un sistema bipartisan, o – ecco il passaggio decisivo – «a riconoscere
la legittimazione democratica della maggioranza e del capo del governo». Una
pura banalità spacciata per pensiero riformista. Chi, infatti, ha mai sostenuto
che Berlusconi abbia vinto le elezioni in modo antidemocratico? Nessuno. Anzi,
perché fosse definitivamente chiaro che non è questo il punto, un po' tutti
abbiamo messo la sordina alla vecchia (e non secondaria) questione del controllo
dei media e dello sfondamento dei limiti fissati per le spese elettorali.
Semmai – o no? – è stato l'attuale presidente del Consiglio che, dopo la
sconfitta del '96, ha
ripetuto per anni che la sinistra aveva vinto grazie ai brogli nelle urne. Ma
allora nessuno sentì il bisogno di richiamarlo pubblicamente al dovere di
riconoscere la «legittimazione democratica dell'avversario». Legittimazione
contestata di fatto anche durante l'ultima campagna elettorale, nella quale,
come è noto, il premier ha sistematicamente rifiutato di riconoscere come
proprio avversario Francesco Rutelli, negandosi per principio a qualsiasi
confronto con il leader dello schieramento avverso. Non è vero? Anche in quel
caso, però, voci «neutrali» zitte e allineate.
Naturalmente, va poi aggiunto, affermare la legittimazione
democratica dell'avversario non implica automaticamente riconoscergli una
brillante o accettabile cultura democratica. Pretenderlo sarebbe un abuso
mentale, una flagrante violazione della logica formale. Non c'è bisogno di
riandare a Hitler, giusto per non generare equivoci. È sufficiente osservare
che chiunque può tranquillamente vincere le elezioni e poi, forte del consenso
ottenuto, manomettere la democrazia e alcuni suoi istituti fondamentali. Nessun
massimalismo, dunque, nelle critiche alla cultura anarco-autoritaria del
leader.
Esse sono invece il punto d'arrivo di una riflessione
sulla prassi che bisognerebbe confutare nel merito, anziché con formule
apodittiche. Piuttosto erano Bossi e Berlusconi, giusto un paio d'anni fa, ad
annunciare che se avesse vinto la sinistra «queste saranno le ultime libere
elezioni». O no? Ma anche allora le voci oggi «dialoganti» stettero
rigorosamente zitte e allineate. Basterebbe non cantare alla luna, insomma. E
in effetti il richiamo a un po' di pragmatico buonsenso davvero non guasta.
La filosofia del «non faremo prigionieri» non consente a
nessuno troppe illusioni. Né ne consente una maggioranza che si compiace in
aula di avere «fregato» l'opposizione attraverso la violazione dei regolamenti
parlamentari o che ha costretto un intero Parlamento a legiferare in modi e
tempi grotteschi per ossequiare gli interessi personali del capo del governo e
di Cesare Previti. Caso mai occorre ricordare come proprio la maggioranza abbia
continuato a promuovere o minacciare commissioni di inchiesta praticamente o
simbolicamente volte a colpire l'opposizione. Insomma, di qua le leggi come
schiaffi (alla decenza istituzionale). Di là le commissioni come randelli,
tutte interne alla simbologia del ricatto politico; commissioni che il
centrosinistra farebbe comunque bene (a mio modesto avviso) a vivere con il
preciso spirito di chi vuole accertare la verità sempre e in ogni caso. Bene
dunque una commissione su Tangentopoli (fuori tutti gli scheletri dall'armadio
di quella stagione!). Bene la commissione sulle malefatte della magistratura,
ché ne vedremmo delle belle: su certi abusi inquisitori sicuramente, e anche su
tante assoluzioni e prescrizioni e omissioni e consulenze e promozioni.
Il fatto vero, però, è che il rispetto per i diritti di
chi governa, l'attenzione all'interesse generale del paese, il fair play
istituzionale dell'opposizione già esistono. E se i leader dell'Ulivo
parlassero di più con i loro parlamentari e meno con i giornalisti forse lo
saprebbero e potrebbero efficacemente spiegarlo al popolo italiano, o a quella
sua parte che se ne sentirebbe rassicurata. Solo per rimanere alla questione
più aspra e conflittuale, quella della giustizia, vale la pena ricordare come
sui provvedimenti di interesse generale, dal terrorismo alla violenza negli
stadi, l'opposizione abbia non solo discusso attivamente per migliorare i testi
ma fornito in aula il numero legale per provvedimenti che essa non avrebbe poi
votato.
Recentemente questo atteggiamento responsabile e
dialogante è stato adottato anche per la nuova legge sul patteggiamento. Al
Senato l'opposizione aveva infatti concesso, in materia, il potere deliberante
alla commissione Giustizia. Su un testo di legge, però. Solo che una volta concessa
la deliberante, il testo è stato subito stravolto; addirittura prevedendo per
la Cassazione (è lei sempre di più l'oggetto del desiderio, l'agognato cavalier
servente del governo…) il potere di intervenire direttamente e d'autorità sulle
misure alternative al carcere. Ossia, dato un dito presa una mano. Offerto il
dialogo, ecco di straforo l'ennesimo provvedimento di favore per salvare dal
carcere chissà quale amico in un futuro vicino o lontano. Abbiamo fatto male,
siamo stati massimalisti ed estremisti, siamo stati alla coda di Moretti e dei
girotondini, se a quel punto abbiamo revocato la sede deliberante?
Eppure forse nulla è più indicativo, per capirsi, di
quanto è accaduto dopo le dichiarazioni del pentito Antonino Giuffrè. Nessun
esponente dell'Ulivo è saltato in groppa a quelle dichiarazioni per attaccare
Berlusconi e Dell'Utri. Sia perché già tante cose gravi si sapevano, anche da
atti ufficiali, ed erano state più volte denunciate; sia perché appare giusto
usare cautela di fronte a dichiarazioni di simile gravità (semmai stupisce che
nessuno in Forza Italia abbia chiesto chiarimenti ai diretti interessati,
giusto per potere difendere il proprio onore…).
Ebbene, un corrispondente del quotidiano più «liberal»
inglese, il «Guardian», mi ha chiamato proprio per chiedermi come mai le
reazioni dell'opposizione italiana siano così contenute e prudenti. Ho
raccontato dei nostri scrupoli: di garantismo, di saggezza politica ma anche di
verità, di rispetto per la memoria di chi ha pagato con la vita il patto
scellerato tra mafia e politica… E ho pensato che dall'altra parte gli scrupoli
sono praticamente latitanti.
Solo per questa ragione, d'altronde, un partito che non arriva al 4 per
cento può disfare l'Italia in cambio del proprio appoggio alle leggi che danno
l'impunità al leader. Sì, la legittimazione democratica ce l'hanno. Ma, così
stando le cose, su che cosa dovremmo accordarci, di grazia?
mcmellon
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