Giudici con la Costituzione in mano

L'Unità – Immaginate
di vedere un cardinale che monti su tutte le furie sapendo che i preti della
propria diocesi vanno alla messa di Natale con il vangelo in mano. Pensereste
subito che il cardinale abbia in cagnesco il vangelo. Oppure che abbia la coda
di paglia, sappia cioè di avere violato o di avere in animo di violare i
precetti evangelici. In ogni caso giurereste che in quella scena immaginaria il
problema maggiore, lo scandalo assoluto, sia il cardinale. L'immaginazione
diventa realtà se si passa alla inaugurazione dell'anno giudiziario e alla
scelta simbolica dei magistrati di andarvi con la Costituzione in mano. Le
polemiche che sono seguite a questa decisione diventano un ulteriore segnale di
quello che si chiama il «clima» del Paese. Vi è addirittura stato nella
maggioranza chi ha auspicato (e gli «auspici» da quelle parti contano, vedi i
casi Biagi e Santoro) che in futuro non si tengano più le inaugurazioni degli
anni giudiziari.

Quelle cerimonie scomode in cui qualche
procuratore generale può denunciare le responsabilità del legislativo o
dell'esecutivo nelle disfunzioni della giustizia o addirittura gli assalti in
corso allo stato di diritto da parte del potere politico. Dopo i libri di
storia, dopo la satira, dopo il giornalismo, dunque, anche le relazioni dei
procuratori.

L'apertura formale di una nuova stagione
di tensioni sulla giustizia, più che mai nervo scoperto del potere in Italia,
chiede però una maggiore assunzione di responsabilità riformatrici da parte
della stessa magistratura e, per quanto le compete su piani ben distinti, anche
dell'opposizione politica. Bisogna ammettere che ogni tanto al ministro
Castelli sfuggono, diciamo così, concetti di buon senso. La sua richiesta di
valorizzare il principio che la giustizia viene amministrata in nome del popolo
non deve suonare come attacco alla indipendenza della magistratura, anche se
può muovere da qualche temibile retropensiero. Va invece presa e assunta come
propria da tutti, senza esitazione. Corrisponde a un preciso precetto
costituzionale e incarna lo spirito profondo della separazione dei poteri nella
democrazia liberale. E anzi può essere il punto di partenza per affermare con
più forza altri principi, quali quello dell'uguaglianza dei cittadini davanti
alle legge o della ragionevole durata del processo o della libertà di opinione.
Altrettanto dicasi della funzione di autocontrollo che il Csm è chiamato a
svolgere sul piano disciplinare, di fronte a negligenze e colpe gravi che
violano i diritti dei cittadini. Non si facciano scudo, i magistrati, delle
omertà interne alla classe politica, che hanno talora ricadute vergognose nella
scelta delle candidature. Garantiscano in proprio e senza indulgere ad alibi il
massimo di trasparenza e spirito di servizio.

E ugualmente non sottovalutino le ragioni
del ministro quando questi solleva la spinosa questione delle incompatibilità.
I magistrati coniugi o fratelli (o gli avvocati e magistrati coniugi, o
fratelli, o figli) nello stesso distretto non sono una bella garanzia di
imparzialità della giustizia per il cittadino. E il dirlo non va considerato
alla stregua di un cedimento bensì come l'affermazione di un principio – quello
delle incompatibilità – che va esteso con forza a tutte le sfere della vita pubblica,
compreso il Parlamento, compresi i rapporti tra premier imputato, deputati
imputati e avvocati deputati; compresi quei casi, senza alcuna allusione a
imputati eccellenti, di potenti che usano come propri avvocati i figli di alti
magistrati con intuitivi benefici «relazionali». In una situazione in cui, come
ha detto Claudio Magris, «si è andati oltre la soglia della decenza», prendere
in mano il tema delle incompatibilità significa cioè aprire una grande
questione di democrazia e trasparenza.

Così come grande questione di democrazia è
e sarà, torno a dirlo, quella della Cassazione. Su questo, il ministro concetti
di buon senso non se ne fa proprio scappare. La Cassazione è destinata, nei
piani del governo, a diventare il braccio operativo del potere politico,
simbolo futuro della «giustizia ingiusta». L'inaugurazione dell'anno
giudiziario dovrebbe sollecitare qualche presa di posizione, pur se cauta e
rispettosa, su questo progetto. Ma dalla Cassazione, come fosse già in procinto
di essere conquistata, giunge un silenzio assordante, nonostante in privato
molti magistrati dichiarino sconcerto per quanto sta avvenendo. Le imminenti
provvidenze economiche, i poteri in arrivo (sottratti al Csm), tutto «fa
clima». Fa clima anche la misura – decisa in Finanziaria! – di aumento dell'età
pensionabile a 75 anni; misura in sé tanto scandalosamente contraddittoria con
i principi professati dal ministro che la stessa maggioranza ha votato un
ordine del giorno per dichiarare che della questione se ne riparlerà.

Ed eccoci dunque a quello che nell'aula
del Senato ho chiamato il Gran Premio Imi-Sir. Chi deve infatti essere premiato
per i servigi svolti o «auspicati» in quella vicenda in Cassazione? Perché la
maggioranza ha deciso che deve essere istituito un nuovo posto di presidente
aggiunto in Cassazione? Quanti anni ha chi dovrà ricoprire quel posto? Non è
straordinario che il governo, pur di ricavare rapidamente quel posto, abbia
deciso la soppressione (urgentissima, come la Cirami) del Tribunale delle
acque? Non è straordinario che il governo abbia deciso tale soppressione per
decreto legge, come se il governo possa sopprimere per decreto un ufficio
giudiziario (domani chissà, la direzione antimafia?). Questa misura è stata
fermata dall'opposizione prima di Natale. Ma verrà riproposta come disegno di
legge. Qual è il suo senso? Chi ne è il beneficiario e per quali motivi?

«In nome del popolo» e non corporativa, regolata
dalle incompatibilità, al di sopra di ogni sospetto di favoritismo personale.
Così sia la giustizia ovunque, a partire dalla Cassazione. Non piacerebbe
davvero – soprattutto al popolo – che il magistrato della Cassazione possa
diventare simile a Bernardino Cataratta, il «mitico» giudice che consiglia a
Benigni di ritrattare in «Johnny Stecchino». E anzi, visto che si parla di
mafia, diciamo che sarebbe bello se in qualche inaugurazione qualcuno dedicasse
una parola ad Antonino Caponnetto, abbandonato ai funerali dal governo. E se a
Catania qualcuno ricordasse a tutti che Cosa Nostra esiste, lampante dacché
uccise la voce più libera della città, Pippo Fava. L'altra sera, alla
commemorazione del giornalista, non c'era una fascia tricolore, non un'autorità
locale, di nessun tipo e grado. Non era la paura dei boss. Semplicemente, il
«clima». Succede, quando la Costituzione in mano ai magistrati fa andare i
governanti su tutte le furie.

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