Ma non parlate di Immunità

L'Unità – La Corte d'Appello di Milano, dunque, ha
rigettato l'ennesima richiesta di ricusazione di Cesare Previti contro i propri
giudici naturali. Ha stabilito quel che la maggioranza degli italiani pensanti
ha capito da tempo.

I motivi della richiesta di ricusazione
sono «infondati». Non è ragionevolmente possibile ravvisare nella condotta dei
giudici né «malafede» (neppure allo stadio di «sospetto»), né «dolosa
scorrettezza» né «abuso delle funzioni». Prevedere le prossime tappe di questa
agra telenovela è un gioco da ragazzi. La legge sul patteggiamento ha già avuto
dalla maggioranza alla Camera la sua bella corsia preferenziale e farà riaprire
Montecitorio una settimana prima del previsto. Le leggi sull'immunità, loro sì
retroattive (mica sono come la legge sull'età pensionabile dei magistrati di
cui vorrebbe servirsi Borrelli…), sono già piazzate in pole position,
raccolte in un ampio e servizievole menù: non c'è che da scegliere.


Ricusazione rigettata, dunque, nonostante
la potenza mediatica con cui ne sono state sostenute le asserite ragioni. In
fondo la legge, come stiamo ripetendo da un anno e mezzo, «è uguale per tutti».
E tuttavia un fondo di amaro resta in bocca. Ed è bene che ce lo diciamo
spassionatamente nelle file dell'opposizione. Perché proprio parlando di
«immunità» e di «legge uguale per tutti», diventa difficile, anzi impossibile,
non pensare al recente voto di astensione dell'Ulivo a Montecitorio sulla
cosiddetta legge di attuazione dell'articolo 68 della Costituzione; ossia
dell'articolo che disegna i contorni della specialissima garanzia riconosciuta
ai parlamentari per esercitare liberamente la propria funzione di
rappresentanza democratica. Questa legge, sia chiaro, non ha ancora nulla a che
fare con le innovazioni sciagurate che si fanno balenare da un po' di mesi (reintroduzione
dell'autorizzazione a procedere, eccetera). Ma intanto qualcosa di suo ce lo
mette. Un tratto di strada in più a quella filosofia «impunitaria» glielo fa
fare. E per due fondamentali motivi. Il primo è che le richieste di
«sindacabilità» delle opinioni espresse dal parlamentare, o la richiesta di un
suo arresto non devono essere evase dalla Camera di appartenenza entro alcun
termine massimo. In sostanza: il magistrato chiede alla Camera interessata di
pronunciarsi sul caso ed essa, con molti salamelecchi (oppure in un garrir di
contumelie, visti i tempi) gli può fare un sapiente marameo. Siamo cioè davanti
a una vera e propria licenza di insabbiamento. Avere respinto gli emendamenti
che chiedevano di adottare altre procedure, compresa quella del
silenzio-assenso entro un certo arco di tempo, indica una precisa volontà di
neutralizzare ogni attività giudiziaria che la maggioranza ritenga per varie
ragioni incompatibile con i propri interessi. Il che, visto l'abuso che finora
si è fatto della libertà di espressione (sono state ritenute insindacabili
anche ingiurie a privati cittadini per fatti privati, narrazioni di fatti falsi
e diffamatori, e via dicendo), implica un potenziamento della dimensione – già
ampia – del privilegio e un corrispettivo snaturamento della garanzia
costituzionale.

Il secondo motivo per cui grazie a questa
legge procede in piena salute la filosofia dell'impunità, è racchiuso nella
ormai famosa norma sulle intercettazioni telefoniche cosiddette «indirette».
Come si sa, l'utenza telefonica del parlamentare non può, per intuibili
ragioni, essere sottoposta a intercettazione. Potrebbe derivarne un controllo
sulla sua attività, potrebbe essere messa in atto qualsiasi strategia
ricattatoria o di condizionamento nei suoi confronti. Tutto logico,
comprensibile. Ma da qui a stabilire che possano essere (meglio: che vadano)
distrutti i verbali delle intercettazioni fatte a carico di terzi (compreso un
ipotetico camorrista) in cui, per sua esclusiva scelta, si infili come
interlocutore un parlamentare, be', questo è veramente troppo. E implica non
solo il degrado di una moderna «garanzia funzionale» a feudale «privilegio di
status»; ma addirittura anche il trasferimento di tale privilegio a vantaggio
dei propri amici e conoscenti, compresi – eventualmente – i criminali.

Domanda: ma alla Camera era proprio
necessario che il centrosinistra, tranne pochissime eccezioni, si astenesse e
non desse un chiaro segnale di responsabilità istituzionale al Paese? Per quale
coazione a ripetere lo spirito della Bicamerale torna sempre fuori, pronto a
uscire dalla lampada che un Aladino incontinente continua a sfregare? Quel che
è accaduto negli anni dovrebbe pure avere insegnato e ammonito; e dovrebbe
anche avere reso più limpida la nozione dei princìpi che non si possono
negoziare. Un gruppo di senatori dell'Ulivo ieri ha annunciato che a Palazzo
Madama su questo provvedimento voterà no. Diciamolo: è davvero il minimo per
restituire fiducia in una classe politica che già deve fare i conti con tanti problemi
di legittimazione. Ma è anche il minimo per fare capire a tutti che la
rigorosa, vigorosa battaglia condotta sulla Cirami o sulle altre leggi della
vergogna non aveva la propria ragione in una convenienza o in un calcolo di
schieramento; nasceva invece, davvero, da profonde convinzioni etiche e
istituzionali.

La Corte d'appello di Milano ha detto a Cesare
Previti che la legge è uguale per tutti. Ricordiamocene anche per noi.

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