Dico grazie ai giudici

L'Unità – Ma
qualcuno gli ha detto grazie? Grazie ai tre giudici, intendo. I tre
dell'Imi-Sir, nome e cognome Paolo Carfì, Luisa Balzarotti, Enrico Consolandi.
I tre giudici insultati e attaccati senza ritegno per anni e sempre più negli
ultimi mesi, in una sequenza impressionante, da mozzare il fiato anche a chi
abbia il più modesto senso delle istituzioni. Non «grazie» per la sentenza che
hanno emesso, nel merito della quale non vogliamo entrare.

Ma «grazie» per quello che hanno dovuto
subire e per quello che stanno subendo, in nome della legge e soprattutto del
popolo italiano. Indicati vilmente senza nominarli, e in blocco, come
magistrati irrispettosi della Costituzione, come pericolosi malfattori che per
ragione di schieramento politico attentano ai sommi principi su cui si regge un
ordinamento democratico. Protagonisti del secondo momento più oscuro della
democrazia repubblicana, ripetizione del primo: il quale, ora sappiamo, non fu
né piazza Fontana, né l'assassinio di Aldo Moro, né la strage di Capaci, ma le
monetine del Raphael a Bettino Craxi (con questo equiparando – fra l'altro –
una sentenza giudiziaria alla furia della piazza e Bettino Craxi a Cesare
Previti, che anche per i critici del leader socialista suona davvero un po'
blasfemo).

Qualcuno gli ha detto grazie, a Paolo
Carfì, Luisa Balzarotti, Enrico Consolandi, per essere rimasti equilibrati,
muti, composti, impassibili, di fronte alle immense offese che giungevano da
uomini dei quali essi rintracciavano un conto corrente via l'altro il filo dei
comportamenti e il senso dello Stato? Per non avere perso mai l'autocontrollo
quando il loro diritto all'immagine veniva violentato a ripetizione da signori
che fanno querele e cause a raffica proprio invocando la inviolabilità del
(proprio) diritto all'immagine, e che quando parlano sono pronti – stuoli di
imputati e di avvocati – a farsi scudo dell'immunità parlamentare? È vero, sono
tutti e tre rappresentanti di quella corporazione che esercita un potere per il
solo fatto di avere vinto un concorso, senza essere stati eletti da nessuno;
fatto, questo, incredibile per la visione che della democrazia ha
l'amministratore delegato dell'Italia Silvio Berlusconi. Eppure hanno
dimostrato di avere un senso delle istituzioni e dei doveri del loro ruolo
assai, infinitamente più alto di quello dei loro aggressori, trionfalmente
eletti dal popolo sovrano.

Ma l'avete visto l'ultimo "Porta a
porta" di Vespa? Un condannato (ancora presunto innocente, lo sappiamo)
viene portato subito dopo la condanna in uno studio del servizio pubblico e da
lì attacca i suoi giudici che, ovviamente, non si possono difendere. E questo
egli fa in un ambiente che presenta le seguenti caratteristiche anatomiche.
Dopo un processo che ha avuto al proprio centro l'accusa, rivolta al gruppo
Berlusconi, di essere andato alla conquista della Mondatori grazie alla
corruzione dei giudici, il moderatore e padrone di casa è un autore di punta
della stessa Mondatori conquistata. E con lui compaiono a) il condannato; b) un
magistrato di Forza Italia imparentato con l'avvocato di Silvio Berlusconi
(coimputato del condannato) e che finora risulta essere stato – certo
casualmente – il più strenuo proponente del ripristino di una piena immunità
parlamentare; c) il direttore del giornale di famiglia del coimputato del
condannato. E al centro della discussione, oltre la sentenza che il condannato
vorrebbe ribaltare mediaticamente, sta una lettera spedita dal coimputato
(Silvio Berlusconi) al giornale di proprietà della propria moglie. Un autentico
sabba catodico. Ma chi avrebbe mai potuto immaginare tanto? Ma dove bisogna
arrivare, ancora? E (aggiungiamo, dicendolo da un anno e mezzo) che senso ha
tenere in vita simili obbrobri civili portandovi la propria civilissima
presenza? Sentivo le accuse che volavano sull'etere, riedizione – loro sì!!! –
delle monetine del linciaggio del Raphael, e riandavo a quei tre giudici, a
Paolo Carfì, a Luisa Balzarotti, a Enrico Consolandi, costretti al silenzio; a
quello che potevano pensare del nostro paese, del modo in cui essi vi sono
costretti a esercitare il proprio mestiere, di come la potenza devastatrice
della politica più autoritaria ed eversiva mai comparsa sulla scena delle
istituzioni repubblicane si sia abbattuta su di loro, che certo non si erano
iscritti alla parte e che si sono trovati a esercitarla, e che non sono
scappati dal loro destino, questo sì, non si sono fatti intimidire; che hanno
disciplinatamente chinato il capo anche davanti alla richiesta di applicare al
loro caso la freschissima Cirami, pur essendovi buona dottrina che li avrebbe
autorizzati a non farlo.

Silvio Berlusconi, nella sua comparsa-sceneggiata
del venerdì santo nei corridoi e sulle scalinate del palazzo di giustizia di
Milano, ha rivendicato a sé il diritto di essere insignito della medaglia d'oro
al valore civile. Ma quella medaglia spetta ai tre giudici di Milano, che nella
loro toga indifesa hanno trovato la forza morale per non piegarsi. Per spiegare
che c'è un giudice a Berlino. Che hanno saputo, solo fidando nella propria
fallibile rettitudine di uomini dello Stato, difendere la legge e il popolo
italiano in nome del quale essa viene amministrata. Forse, anzi sicuramente,
non riceveranno la medaglia oggi, e nemmeno domani. Ma gliela darà la storia di
questo paese senza santi protettori, di questa patria senza sacrari.

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