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Perché ho parlato male di Berlusconi
L'Unità – Oddio il massimalismo.
Oddio i toni forti. L'inasprirsi della polemica politica, l'assalto a testa
bassa di Berlusconi contro tutto e tutti rischia di mietere vittime anche tra
qualche intelligenza di sinistra e perfino di movimento. E per questo, per
igiene mentale, va recuperato il senso dei fatti e delle parole. Dopo le
cassette del padrone a reti unificate, dopo le minacce contro le libertà di
espressione e di informazione, dopo il comizio granguignolesco di Udine. Dopo i
«buffone» urlati da una manciata di privati e comuni cittadini (da un
contestatore in totale solitudine a Milano, da un gruppo lillipuziano di
oppositori a Bari). Dopo piazza Navona e la embrionale ripresa dei movimenti.
Dopo il Salone del libro di Torino e le folle che vi si sono registrate agli
appuntamenti editorial-politici.
Massimalismo. Che sarà mai? Facciamo
la solita operazione Devoto-Oli. Che del vizio culturale in questione recita:
«storicamente, nei partiti socialisti europei all'inizio del secolo XX, la
tendenza che propugnava l'azione rivoluzionaria per il rovesciamento
dell'ordine capitalistico e l'instaurazione del socialismo». Aggiungendo che si
dice genericamente «di estremismo velleitario». Bene. Si vuol fare passare
l'idea, in molti ambienti governativi, o cosiddetti neutrali, o perfino di
sinistra (accademica o politica), che il massimalismo, come forma di
radicalismo ideologico, sia la difesa intransigente della Costituzione, delle
libertà democratiche o della legalità. Ossia la volontà di difendere i grandi
principi costituzionali dall'attacco eversivo del Governo. In sostanza: se è
massimo l'attacco, anche la difesa rigorosa, l'indisponibilità ad andare verso
l'avversario e trovare un punto d'incontro, sarà anch'essa, quasi per
definizione, massimalismo, specchio colpevole dell'arroganza altrui. Anzi, a
sentire certi commentatori, la difesa sarebbe perfino più colpevole – e
massimalista – dell'attacco.
«Logica golpista» della magistratura
giudicante. Magistrati «cancro da estirpare». I militanti del Polo «apostoli
della libertà», «guerrieri» contro «il pericolo rosso». Tanto che «bisogna
fucilare democristiani, socialisti e comunisti». Questi sono gli assaggi, le
«tapas», del ricco pasto di insulti e chiamate alle armi che il premier e Bossi
forniscono quotidianamente agli italiani e alla dialettica istituzionale. In
questo contesto la polemica dell'opposizione è ruotata intorno alla nozione e
al rischio del regime, parola tabù fino a poche settimane fa. Si è esercitata
sui dati, sui comportamenti rilevati da ogni osservatore straniero. E ha
mobilitato intorno a fatti precisi: un pugno di imputati (per reati multiformi,
dalla corruzione dei giudici all'associazione mafiosa), una tecnostruttura di
avvocati, leggi di favore. Vero? Non vero? O insulti e invettive apocalittiche
come dall'altra parte? O inviti a «farsi» le mogli degli avversari o dei loro
presunti amici? Cerchiamo dunque di capirsi, quando si parla di «toni forti» e
di «eccessi». Perché l'osservazione polemica della realtà non è la stessa cosa
che l'ideologia bellica volta a costruire il mostro attraverso la menzogna
sistematica.
Sono stato personalmente coinvolto
in una di queste dispute. Per avere detto (in piazza Navona) una cosa
storicamente inoppugnabile. E cioè che stiamo vivendo la più acuta
destabilizzazione istituzionale mai vissuta dalla Repubblica; e che in questo
senso a Berlusconi è riuscito ciò che, a dispetto delle loro ambizioni, non
riuscì né alle bombe né al terrorismo, che – notoriamente e per fortuna –
ebbero l'effetto di compattare istituzioni e sistema politico. Questo significa
dire – attenzione – che Berlusconi «è peggio dei terroristi» o «ha fatto più
danni» di loro? Cioè liberarsi del peso di centinaia di morti e di una dimensione
del terrore che abbiamo tutti conosciuto bene? Ecco dunque come gli esegeti
raffinati della parola sanno diventarne all'occorrenza disinvolti manipolatori.
Ed evitare di vedere la guerra permanente tra istituzioni a cui siamo stati
portati sulla spinta di purissimi interessi personali. Così va il gioco del
massimalismo.
Il quale si consuma però anche
nell'opposizione. E anche qui rivela fenomeni culturali preoccupanti. È
dall'anno scorso infatti che il massimalismo – ora inteso, tornando al
Devoto-Oli, come «estremismo velleitario» – viene da molti identificato con la
scelta di mobilitarsi in piazza per difendere certi principi o diritti. Qui si
ha davvero la negazione della politica, nella sua accezione più profonda e
partecipata e popolare. Poiché se essa cataloga la piazza come sinonimo di
massimalismo o come contrario della politica «intelligente» e «costruttiva»,
finisce necessariamente per derubricarsi ad altro: a telecrazia, ad accademia o
(nel migliore dei casi) a parlamentarismo. Piazza come luogo pubblico non
apparecchiato da militanti fedeli. Piazza come incontro gratuito, come
discorso, come informazione viva, come coesione. Parte di un'azione generale
che prevede il lavoro parlamentare, il pensiero e la scrittura, l'incontro
molecolare con esperienze partecipative diffuse. Togliatti pensava e leggeva e
scriveva di meno perché faceva i comizi e magari in quei comizi diceva, fra
l'altro, che avrebbe preso a calci nel sedere De Gasperi? Togliatti e De
Gasperi, al di là della loro ideologia, sapevano che cosa fosse la politica. La
politica, non il massimalismo. E la piazza la presidiavano e la mobilitavano.
L'urlo massimalista che, a proposito
della manifestazione di piazza Navona, mi ha attribuito su queste pagine Pietro
Barcellona è, in realtà, la mobilitazione per i diritti democratici. Alla quale
viene opposto, alla fine, il principio che questo tipo di mobilitazione non
basti per sconfiggere «un regime reazionario di massa». Grazie, lo sapevo. Così
come so che a furia di «non basta» e di discorsi critici sulle lotte per la
legalità, la sinistra in certe città del sud viaggia sul 7-8 per cento. E
tuttavia, vorrei aggiungere, l'«estremismo velleitario» di quest'anno e mezzo
qualche risultato lo ha prodotto. È riuscito a contenere l'onda d'urto, appunto,
del regime reazionario di massa (continuo a usare per comodità questa
espressione, sia pure un po' datata) nei suoi luoghi e momenti di maggiore
pressione. Ha riportato alla partecipazione – praticamente uccisa sotto i
governi dell'Ulivo – masse che i partiti di propria iniziativa non
mobilitavano, e in numeri da fare arrossire il Sessantotto. Non «contro i
partiti» ma al loro fianco, a loro pungolo, con il contributo di decine di
parlamentari che si sono posti (qui sì!) in forma radicale un interrogativo
sulle proprie responsabilità storiche: se accontentarsi oggi del proprio lavoro
istituzionale o fare qualcosa in più. E che hanno scelto la seconda strada.
E di più bisogna continuare a fare. Proprio piazza
Navona ha infatti lanciato un segnale che mi pare gli osservatori non abbiano
colto. Durante la serata sono stati mandati in onda alcuni filmati su
Berlusconi: «intervista» di Socci e altre tragiche amenità. Ebbene, le migliaia
di cittadini rimasti lì quattro ore ne hanno preteso la sospensione. Non per
odio, ma per noia, per overdose mediatica. Confermando le tendenze segnalate
dai dati di ascolto televisivi, e da ciò che sappiamo per esperienza vissuta.
Si parla da tempo del boicottaggio dei media. Ora ciò che appariva forzoso
sembra maturo per diventare fatto spontaneo. Il «regime» o quello che è si
fonda sulla televisione. La televisione può esserne il tallone d'Achille. Su
questo tema spendiamo nuove riflessioni e nuove energie. Sapendo, naturalmente,
che anche questo «non basta».
admin
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