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Attentato alla Costituzione la vera storia
L'Unità – Questa volta l'avete fatta
troppo grossa. Il messaggio l'altra sera, la sera di mercoledì 4 giugno, era
questo. E arrivava per via diretta o indiretta un po' da tutti gli stati
maggiori dell'Ulivo. Siete degli irresponsabili. Oppure, per la serie del
politichese on the road, avete fatto una cazzata. Proprio sera non era, in
realtà. Era pomeriggio. Già, perché la grande battaglia degli emendamenti sulla
legge Boato, cavallo di Troia del lodo Schifani, la grande battaglia dicevo,
era già finita alle cinque del pomeriggio. Era durata assai meno del tempo, già
risicatissimo (mercoledì e basta; a oltranza, fino a notte) «concesso» per
questo provvedimento dal presidente Pera. La disfida campale si era rivelata,
in fin dei conti, una distesa e pacifica discussione. Sicché il clima sereno
della giornata contrastava con l'aria pesante che si era formata in un paio
d'ore intorno ai sedici senatori che avevano firmato il documento del peccato:
una pubblica denuncia contro il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi per
attentato alla Costituzione.
Un appello ai cittadini italiani
sulla estrema gravità del momento storico. Da inviare per conoscenza alle più
alte cariche dello Stato. Alle quali era stata associata, in una prima stesura,
anche la procura di Roma, come autorità alla quale si inviano per tradizione,
insieme alle altre cariche istituzionali, le denunce che interessano
comportamenti anticostituzionali di questo o quel cittadino investito di
cariche pubbliche nella capitale. Da qui il coro pronto, zelante e facilmente
indignato: volete portare nei tribunali ciò che è politico. Neanche per idea.
Ci spiace se questo priverà qualcuno di una freccia d'oro, ma a una denuncia
giudiziaria non ci avevamo mai pensato. E lo avevamo detto subito con chiarezza
ai giornalisti, già al momento della diffusione dei tre fogli dell'appello.
È stato così che noi senatori
«colpevoli» ci siamo trovati nel tardo pomeriggio nella sala di un gruppo
parlamentare a ragionare su quanto stava accadendo. Non eravamo tutti e sedici
i firmatari, ma un po' più della metà, quelli che erano riusciti a raccogliersi
in pochi minuti nei corridoi o con qualche telefonata concitata. L'invito da
fuori era tambureggiante: dite che è stata un'iperbole, una provocazione, sta
succedendo il finimondo. Ma siete pazzi, l'avete mandata alla Procura. La
Procura? Ma quale Procura, se è per quello la eliminiamo subito dai
destinatari, chissenefrega. È il resto che ci interessa. La denuncia politica e
istituzionale non si tocca. No, non è stata solo una «provocazione».
L'attentato alla Costituzione è in corso, d'altronde; molti lo vedono, le
chiamano violazioni, ma hanno una sistematicità che non può sfuggire a nessuno.
Tanto più in questa strana giornata di bonaccia dobbiamo prenderci la
responsabilità di dire al paese quello che sta accadendo.
Vedete, si formano a volte dentro le
istituzioni dei gruppi umani che hanno una identità del tutto imprevedibile.
Dentro la Camera si formò nella scorsa legislatura il gruppo umano della
Bicamerale, non previsto dagli elettori e nemmeno dagli alchimisti delle
candidature. Dentro il Senato si è formato quasi per misterioso contrappeso in
questa legislatura un gruppo umano che ha un'alta sensibilità per le questioni
dei diritti e dell'etica pubblica e che ha anche il temperamento di chi le
battaglie, oltre ad annunciarle, le fa per davvero. E con tutti i mezzi a
disposizione. Questo gruppo, in cui le donne hanno un peso paritario e talvolta
prevalente, mette insieme, in perfetto spirito ulivista, verdi, diessini,
«margheriti» e comunisti; e, con la partecipazione di diversi deputati, ha
anche dato vita da un anno e mezzo al comitato «La legge è uguale per tutti».
Be', è questo gruppo che l'altro
ieri ha scelto di dare al Paese un segnale deciso. Devo essere sincero. Non è
stato un confronto da «vai-col-liscio», quello di mercoledì. Sui diessini
incombeva la fresca e drastica sconfessione del loro capogruppo. Sui margheriti
tornava a gravare l'accusa fiorita dopo l'insuccesso delle provinciali: quel
radicalismo che, tra la Bindi e i giustizialisti, «ci fa perdere i voti». I
famosi voti moderati soprattutto. Poi però è prevalso da parte di tutti una
convinzione: abbiamo passato il Rubicone e dobbiamo andare avanti. Anche se ci
sembra di essere soli. Anche se, come hanno aggiunto in tanti, qui fuori oggi
non c'era nessuno, accidenti i movimenti dove sono? Hanno paura di essere
contati, ho risposto, se sono in trecento anziché in un milione i giornalisti
dicono che sono finiti… Ma che vuol dire? Ci hanno fotografato in tanti con i
nostri cartelloni addosso, i turisti sorridevano, sembrava una nostra
esibizione personale. Qualcuno ha ricordato i momenti difficili del gruppo
umano del comitato, per l'occasione allargato a Tommaso Sodano di Rifondazione
e a Fiorello Cortiana dei verdi. Ma ve li ricordate i giorni prima di piazza
Navona? Quando ci accusavano di essere dei giustizialisti a fare una
manifestazione sulla giustizia in piazza? E i giorni dopo ve li ricordate,
quando ci dicevano che facendo parlare Moretti avevamo mandato a fondo l'Ulivo?
E poi le piazze dell'Ulivo si sono riempite a getto continuo, roba che non
succedeva da secoli. Vi ricordate, ha aggiunto la verde Anna Donati, come ci
guardavano quando preparavamo lo spettacolo teatrale «Il partito dell'amore»?
Ci sbeffeggiavano e ora ci chiamano dappertutto. E la Cirami?
Già, qualcuno dei capi ha detto che
con il lodo Schifani non dovevamo rifare come con la Cirami perché qui in
Senato mica siamo dei buffoni. Buffoni. Buffoni per avere bucato i media, come
spesso ci lamentiamo di non sapere fare? Per avere messo sul piatto della
battaglia qualche cartello (qualcuno lo ha fatto per coscienza politica, si
vergognava, ve lo giuro) e molto, molto lavoro? Perché forse questo ora deve essere
chiarito. Che il gruppo umano in questione è fatto non di persone capaci solo
di fare movimento o mobilitare la piazza, ma di persone che – diversamente
anche da qualche persona più seria – si fanno le serate in commissione, seguono
il lavoro parlamentare senza mancare mai o quasi mai in aula, tengono i
rapporti con la società civile, viaggiano per manifestazioni tutti i santi week
end. Buffoni. L'accusa pesa. E nella nostra discussione richiama il nuovo clima
del Parlamento.
Che il lettore, il cittadino, deve
conoscere. Il clima che il senatore D'Onofrio, secondo proponente del lodo
Schifani, ha ben reso ieri in aula con il suo continuo riferimento al «nuovo
equilibrio». Il nuovo equilibrio è quello che si sta formando all'ombra di una
entità impalpabile, ma che sembra avere i contorni sfumati del ricatto. Un
ricatto mai dichiarato ufficialmente ma che avanza, strisciante, come il
serpente dell'Eden che offre a Eva la fatidica mela. Chi ne siano gli
ispiratori e i protagonisti non si sa. Ma che qualcosa sia cambiato, qualcosa
con cui dobbiamo fare i conti, questo lo avvertiamo. La calma irreale, il
fastidio verso chi non capisce e ancor più verso chi capisce e non si adegua. È
un clima torbido. Ormai ogni giorno esponenti della maggioranza – in privato,
ma anche apertamente di fronte a gruppi di colleghi, e una volta perfino nel
dibattito in commissione – fanno battute sul presidente della Repubblica,
millantando di tenerlo sotto controllo. Telekom Serbia, Mitrokhin,
Tangentopoli, forse Sme: le commissioni randello della maggioranza, forti
dell'artiglieria mediatica dislocata a tutto campo, sono piazzate come una
spada di Damocle sulla testa dell'opposizione e sulla vita passata delle
istituzioni. E di fronte a questo si cerca la via d'uscita. Messi al bivio. Tra
il «nuovo equilibrio» e la denuncia irreversibile di quanto accade.
Il lodo Schifani è l'alfiere
gorgogliante dei nuovi tempi. È peggio, sicuramente peggio della Cirami. Parte
da un'esigenza condivisibile, un surplus di garanzie per le alte cariche dello
Stato. Ma la risolve, come ha detto il senatore Pierluigi Petrini in
commissione, alla Saddam Hussein: un'impunità assoluta per il premier. Per
tutto, per sempre, per tutti i reati, con tanto di porta aperta ai coimputati.
Proprio come avevo proposto, in un (allora) beffardo disegno di legge,
nell'estate del 2001. L'ho voluto ricordare al presidente Pera, intervenendo in
aula. Si ricorda, signor presidente, quando, in nome del principio della
riduzione del danno, ossia per non fare scassare l'ordinamento giudiziario del
Paese, le presentai una proposta di legge nella quale stava scritto che il
presidente del consiglio non era soggetto alla legge penale in vigore sul
territorio della Repubblica italiana? Si ricorda che lei, sdegnosamente,
giudicò quella proposta irricevibile perché «incostituzionale»? Ebbene: ora lei
non ci fa votare d'urgenza una legge che enuncia lo stesso principio contenuto
nella mia proposta? È vero, io aggiungevo che la norma doveva valere anche per
dieci persone scelte dal premier a suo insindacabile giudizio. Ebbene, qui c'è
posto anche per i coimputati. Non sono trascorsi nemmeno due anni. Questo
voglio dire: ciò che allora era provocazione irritante, follia, offesa o
dileggio per l'ordinamento costituzionale, oggi passa, diventa legge come in un
tranquillo pic nic di campagna. È il nuovo equilibrio.
E l'attentato alla Costituzione, in
tutto questo? Sì, perché oltre a quello politico c'è anche il rimprovero
giuridico. Al di là delle singole violazioni, dove diavolo lo vedete l'attentato
alla Costituzione? Vi rendete conto di quello che avete scritto? Sì, ci
rendiamo conto. Perché è da un anno e mezzo che il «nostro» gruppo di senatori,
in compagnia ampia anche se variabile, vive con preoccupazione, fatica mentale,
a volte perfino (ma sì!) con sofferenza fisica, questo svuotamento della Carta,
questo assalto ai princìpi su cui è cresciuta la nostra democrazia. Una
Costituzione è fatta delle sue radici, della sua ispirazione generale, dei suoi
princìpi di fondo, della sua formulazione letterale. Ebbene, se essa viene
attaccata continuamente nelle sue radici, nella sua ispirazione generale, nei
suoi princìpi, nella sua lettera, e se viene attaccata dalla posizione di capo
del Governo, si realizza o no un attentato alla Costituzione? Un essere vivente
può essere ucciso con un colpo di pistola o iniettandogli veleni o
facendoglieli respirare. Si muore di mafia, per capirsi, ma anche a Porto
Marghera. Da qui la domanda: è attentato o no colpire progressivamente e
cumulativamente la divisione dei poteri, l'eguaglianza dei cittadini davanti
alla legge, la natura «una e indivisibile» della Repubblica, la libertà
d'informazione, la scelta della pace come strumento per risolvere le
controversie internazionali, l'indipendenza della magistratura, la libertà
della funzione legislativa, i regolamenti delle Camere? Attaccare pubblicamente
e indicare al pubblico dispregio sulla televisione di Stato un potere dello
Stato, quello giudiziario, e offendere ripetutamente singoli magistrati o tutta
la magistratura?
La verità è che questo attacco
continuo e sistematico promette, per il futuro, assai poco «equilibrio».
Saltano le convenzioni simboliche, il senso stesso delle istituzioni in cui si
agisce. Lo stesso presidente della Repubblica di fronte a questa maggioranza
che si sente onnipotente, «perché questa è la democrazia», è un puro flatus
vocis, e a volte neanche quello. Ma quale simbolo dell'unità nazionale, o
carica costituzionale suprema, ammiccano le loro parole. Forse per capire se
l'attentato è in corso basta proprio sentire le battute quotidiane su Ciampi; o
– perché la questione non è diversa – bastava vedere e sentire la muraglia
umana che impediva ieri a Scalfaro di parlare in aula e di difendersi dalle
false accuse del garantista Schifani. L'ex presidente non ha potuto parlare per
minuti interi. Vederlo così, alla vigilia degli ottantacinque anni, con la sua
carica che chiederebbe rispetto formale, impossibilitato a prendere la parola,
metteva i brividi. Poi sono usciti per mostrargli disprezzo e si sono ammassati
davanti ai video nei corridoi e di lì, davanti ai giornalisti, l'insulto più
ripetuto è stato – mi perdoni presidente – «faccia di culo». Non so, non
sappiamo noi sedici senatori firmatari dell'appello, che altro dobbiamo
aspettare per dire, per parlare.
A questo punto, anzi, devo fare una
pubblica autocritica. Sono tra quelli che ritengono che la nostra Costituzione
vada svecchiata. Mi piacerebbe vederci qualcosa in più e qualcosa in meno. Per
questo ho vissuto con una certa deferente estraneità, nel '94, gli sforzi di
Giuseppe Dossetti e di Antonino Caponnetto per mobilitarsi in sua difesa. E per
questo mi scuso con la loro memoria. I due vecchi avevano ragione. Non si
trattava di una battaglia di nostalgia ma di una drammatica battaglia di
democrazia. Che ora, al momento decisivo, quando si tratta di scegliere se
entrare o no nel «nuovo equilibrio», va combattuta con tutta la dovuta nettezza
e responsabilità. Troppo radicali? Il cardinale Martini distingueva nei suoi
discorsi milanesi tra la «moderazione» (da incoraggiare) e il «moderatismo» (da
evitare). I sedici senatori, dal giugno-luglio del 2001 (primo provvedimento,
ricordate?, l'abolizione della tassazione sulle successioni dei grandi
patrimoni) fino a oggi hanno visto abbastanza, sentito abbastanza, imparato
abbastanza, per ripudiare, in nome del popolo italiano che li ha eletti, il
moderatismo. Vivere nel segno della propria Carta Costituzionale è il primo
diritto di ogni cittadino.
P.S. Quanto ho qui scritto non
impegna ovviamente nessuno dei quindici altri senatori firmatari
dell'appello-denuncia. Esprime, all'interno di una vicenda e di un impegno
collettivi, soltanto la mia personale sensibilità politica e civile.
mcmellon
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