Mago Merlino dell’impunità

L'Unità – «Il semestre europeo, il
prestigio internazionale del Paese». Risuona ovunque la nuova formula magica
del mago Merlino dell'impunità, l'abracadabra che dovrebbe fare materializzare
dopodomani la più insolente delle leggi ad personam licenziate in questa
legislatura. Ma che cos'è il prestigio? Davanti alla nuova corsa (non troppo a
ostacoli) della maggioranza per fare approvare l'editto Berlusconi in
Parlamento.

Davanti ai vaniloqui sul semestre
europeo, nuovo idolo pagano al quale sacrificare i princìpi costituzionali di
un popolo; davanti al clima paludato e paludoso in cui si muovono i
protagonisti della nostra vita pubblica; davanti a tutto questo, e al contorno
dei suoi cerimoniali retorici, c'è una domanda che spariglia ogni convenzione.
Questa, appunto: che cos'è il prestigio? Forse la società virtuale ci ha ormai
derubato del senso stesso delle parole. Perché il prestigio è una risorsa
immateriale ma non vaga, precisa, fatta di tante cose. Semplificando: la
considerazione, la stima, la fiducia (e molto altro ancora) di cui è circondata
una persona o una istituzione, in virtù della sua vita intera. In un mondo in
cui tutto si compra, il prestigio non si compra. E nemmeno si acquisisce per
imperio. O per legge. Diverso, radicalmente diverso – per questo – dal potere,
dalla ricchezza o dalla notorietà.

E dunque che cosa vuol dire che
occorre approvare l'editto Berlusconi (detto anche lodo Schifani) per
salvaguardare il prestigio dell'Italia nel corso del semestre europeo? Di quale
prestigio può mai ammantarsi un capo del governo il quale eviti i suoi processi
nelle forme che sappiamo, sconvolgendo ogni principio di divisione dei poteri,
facendo polpette della dignità del Parlamento del suo paese, e infine ottenga
di non farsi processare grazie a una legge incostituzionale? Egli, per capirsi,
godrà di più considerazione se si assoggetterà alle leggi o se le calpesterà
sprezzantemente? E, se le calpesterà impunemente, di quale prestigio potrà mai
ammantarsi il suo paese agli occhi di qualsiasi società moderna fondata sul diritto?
O forse, come giustamente ha fatto notare Furio Colombo nel suo editoriale di
ieri, si immagina che all'estero, tra i partner europei, l'approvazione
dell'editto Berlusconi farà salire la reputazione morale del nostro premier e
delle nostre istituzioni? I poeti hanno il dono divino della sintesi. E per
raccontare le istituzioni indegne del rispetto Fabrizio De André scrisse un
verso indimenticabile: «Una volta un giudice giudicò chi faceva la legge. Prima
cambiarono il giudice, poi cambiarono la legge». Qui il giudice non lo
cambiano. Lo fanno sparire semplicemente. Da dove potrà sgorgare dunque il
prestigio internazionale? Davvero sembra di vivere infilati in una commedia del
grottesco. Le parole e i concetti si rincorrono tronfi, si stringono infine a
coorte, quindi si squagliano davanti alla minima obiezione logica. Come
grottesco è pensare (e dire) che chi non sta al gioco dell'impunità sia nemico
dell'interesse del paese, secondo lo stesso assioma che, più di mezzo secolo
fa, portò il giovane Giulio Andreotti ad accusare di antipatriottismo il cinema
neorealista, reo di offrire all'estero un'immagine negativa dell'Italia.

In realtà siamo chiamati ad
affrontare in tutta la sua densità un grande problema che pesa, esso sì, sulla
reputazione attuale e futura di questo paese. È il problema che, mutuando il
titolo di un aureo libretto (Einaudi) che mette a confronto il cardinale
Martini e Gustavo Zagrebelsky, potremmo chiamare della «domanda di giustizia».
Il dialogo tra i due autori nasce presso la Cattedra dei non credenti, ma –
come ogni tanto capita in virtù delle astuzie della storia – sembra tagliato su
misura proprio per le nostre vicende odierne. E definisce un principio che ha
radici nella storia degli uomini: l'idea di giustizia nasce dall'esperienza di
un'ingiustizia, subita da noi o da chi ci è caro. Esiste cioè, fuori dalle
teorie astratte e geometriche, un sentimento di giustizia su cui si
costruiscono le società. Anzi, la giustizia così intesa è sorella della pace e
della verità, fino a formare con esse una cosa sola. Ebbene, l'Italia di questi
anni sta sperimentando una ferita del proprio senso di giustizia. Non è la
prima ferita. Altre ne ha subite di fronte ai misteri delle stragi, a impunità
clamorose e a grappoli di morti. Ma questa ferita, priva per fortuna del peso
immenso dei morti, non nasce dai misteri. Nasce invece da ciò che è
clamorosamente e scandalosamente alla luce del sole: la pretesa dell'impunità
di chi è potente, laddove quel sentimento di giustizia porta Abramo a contestare,
in nome della giustizia, perfino il Signore («Lungi da te far morire il giusto
con l'empio, così che il giusto sia trattato come l'empio, lungi da te!»). Per
questo incide sulla natura, sull'identità stessa del paese.

E non conta, davvero non conta in
questo frangente che la difesa di quel sentimento di giustizia non porti voti,
come qualcuno continua a ripetere (cosa che già in sé è molto dubbia). Perché
l'opinione della maggioranza non può trasformare in giusto l'ingiusto, né il
vero in falso. Il sentimento di giustizia si esprime, si elabora fuori dalle
contingenze, dalle pressioni del potere. E poi si confronta con la storia delle
persone e delle istituzioni, misura – appunto – il loro prestigio. Perché, per
usare le parole di Carlo Maria Martini, il senso di giustizia «è percepito da
ciascuno di noi come valore assoluto, non negoziabile». «Non dipende» (ecco la
famigerata questione del «portar voti») «da un'utilità» ma è «fondamento
irrinunciabile che per il cristiano è basato sulla dignità dell'uomo».

Ma c'è di più. Perché una società
dagli incerti princìpi come la nostra sta andando, con la sua sterminata e
frenetica legislazione di favore, verso un pericolo. Quello che sempre si
manifesta quando il sentimento della giustizia viene offeso dalle leggi. In
quel momento «giustizia» e «legalità» non coincidono più, possono anzi andare
per strade opposte, diventare nemiche. E perfino il giudice, che ha il dovere
di interpretare le norme «secondo giustizia», è costretto ad andare contro la
legge; il che in base alla nostra Carta significa che ne reclama l'annullamento
da parte della Corte Costituzionale. Anzi, laddove i giudici applichino le
leggi fatte apposta per legittimare l'arbitrio (che è inevitabilmente
l'arbitrio dei potenti), non ci troveremmo più in uno stato di diritto. Al
posto del quale, man mano che giustizia e legalità si allontanano, si staglia
piuttosto la sagoma inquietante e minacciosa dello «stato di delitto». Al di là
dei nomi dei potenti di oggi, dei loro avvocati, dei loro maggiordomi in
Parlamento e nell'informazione, questa diventa dunque ormai la grande questione
etica, civile, che misura il paese, l'Italia all'inizio del terzo millennio. Il
conflitto tra la legge e la giustizia, l'allargarsi insopportabile di quel
solco (entro certi limiti fisiologico) che separa il diritto naturale dal
diritto positivo, l'irriducibilità del potere ai princìpi costituzionali e alle
leggi che sono nate dal loro grembo. La più assoluta e sfrontata delle impunità
dovrebbe essere approvata dal Parlamento ed essere controfirmata dal Presidente
della Repubblica in questa temperie. In nome della ragion di Stato, si dice.
Solo che qui, viene da osservare, le ragioni di Stato sono due. La prima è
quella della quiete e della convivenza tra i più alti poteri istituzionali. La
seconda è quella della fibra morale e della qualità storica dello Stato stesso,
l'unica che dia «prestigio» davanti ai contemporanei e davanti ai posteri. Qual
è la più importante?

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