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Quella Pm taccia per sempre
L'Unità – La dottoressa Ilda
Boccassini avrà anche la toga nera. Però ha i capelli rossi, inequivocabilmente
rossi, di un rosso così intenso da riverberarsi sulla toga. Per questo aveva un
che di suggestivo, di pittoricamente simbolico, lo sguardo smarrito,
sconcertato, un po' indignato e un po' rassegnato, con il quale ieri è sembrata
seguire l'addio dell'imputato più ricco e più potente che il destino potesse
riservarle. Per questo ha un che di suggestivo, di pittoricamente simbolico,
che proprio davanti a lei abbia ricevuto in Italia onorata sepoltura il
rivoluzionario principio che la legge è uguale per tutti. La saga giudiziaria
ci ha ormai talmente mitridatizzato che facciamo fatica perfino a cogliere
l'essenza degli eventi. Eppure questo è successo. Nella città di Verri e
Beccaria un imputato ha detto addio ai suoi giudici naturali, lasciandoli
esterrefatti ai loro scranni, per involarsi verso luoghi per loro inarrivabili,
quasi in una parodia dell'Assunzione, chiamato in paradiso da se medesimo.
Liberandosi d'imperio dalla propria condizione di imputato.
La nostra storia ne ha viste di
impunità; ne ha viste e ne ha gridate. Ma ieri la commedia, la clownerie, si è
mescolata carnalmente con il potere delle istituzioni, è entrata nell'aula di
un tribunale e ha fatto dell'impunità letteratura buffonesca.
Guardava, la dottoressa Boccassini,
le persone intorno a lei, l'imputato, gli avvocati, le scorte dell'imputato. E
avrà pensato che se l'imputato era la massima autorità di governo nel «suo»
Stato, nel suo stesso Stato, be', lei non era più, per oggettiva e ferrea
contraddizione, servitore dello Stato. Né lei, né Gherardo Colombo, né i
magistrati del collegio giudicante. Il capo del governo non voleva affatto
essere «servito» da loro. Nessuno meritava quell'appellativo che, a volte
sinceramente a volte retoricamente, viene adagiato sulle spalle (e talora sulle
bare) di magistrati, poliziotti o carabinieri, ossia di chi ha il compito di
tutelare la legalità repubblicana. Il capo del governo li licenziava tutti,
quei giudici. Anzi, si faceva beffe di loro. Né loro voleva, né – mai più –
l'avvocatura dello Stato nei processi penali, neanche per chiedere verità e
giustizia per le vittime del dovere, non si sa mai che ci scappi di nuovo –
come a Milano – un altro avvocato impertinente che pretenda di fare l'interesse
dello Stato contro gli imputati eccellenti.
Fuori dall'aula le agenzie
concordavano e rilanciavano. L'imputato se ne è andato (se l'è squagliata, si
dice dei poveri diavoli). Ha giurato a tutti che risponderà a eventuali domande
se sarà sentito a Palazzo Chigi. Ha annunciato pure che intende avvalersi del
suo diritto a comparire in tutte le udienze. Mentre lo diceva, sapeva però che
di udienze non ce ne saranno più. Perché lo ha deciso lui. Perché «la legge
sono io». Esternava nel processo con l'aereo per Roma dietro l'angolo, pronto a
far votare dal parlamento – servo suo e sovrano altrui – la legge che metterà
fine a questo e a ogni altro processo. Con i suoi avvocati dietro. A Roma, a
Roma anche loro, per votare la legge che metterà fine al processo che essi –
principi del foro e con l'imputato innocente – non riuscivano a vincere.
Proprio così. Al mattino c'è la legge, al pomeriggio la si cambia. Al mattino
si fa l'avvocato difensore, al pomeriggio si legifera sulle proprie cause.
Esattamente come se il collegio giudicante si riunisse in camera di consiglio e
ne uscisse, lieto e giulivo, con una legge che raddoppia le pene per l'imputato
o istituisce nuovi reati o abolisce la prescrizione o introduce nuove
aggravanti. Sì, come in una commedia. Chiusasi (se vogliamo fare lo sforzo di
raccontarne il finale a un bambino) con il seguente dialogo: «Scusatemi», disse
l'imputato ai giudici, «ora devo andare perché ho un impedimento». «Qual è
l'impedimento?», chiesero i giudici. «Devo fare sospendere per sempre questo
processo». «Ah, ci scusi», risposero i giudici sebbene a malincuore, «può
andare, è nel suo diritto».
Scusi, dottoressa Boccassini, ma se
quando ha fatto il concorso per la magistratura, quando ha indagato sulla strage
di Capaci, quando ha rischiato la vita, avesse immaginato che un giorno così si
sarebbero fatte le leggi e così si sarebbe amministrata la giustizia in Italia,
ci avrebbe mai creduto? E d'altronde, chi avrebbe potuto mai crederci?
Un copione simile non lo avrebbe
immaginato nemmeno Eduardo, che pure sulle assurdità, sulle scartoffie e sui
clown della giustizia scrisse battute inarrivabili. Vede, il capo del governo
ha detto che il pubblico ministero Paolo Ielo ha speso tanti soldi per indagare
su di lui. Ma ha dimenticato di dire quanti soldi ha fatto spendere lui, da
capo del governo, per tenere al lavoro il parlamento (quasi mille persone, più
i funzionari e i commessi) per mesi e mesi per difendersi in quello stesso
processo, insieme con i suoi coimputati. Non se la prenda, dottoressa
Boccassini. È vero che lei ha lavorato per anni sui reati svaporati d'incanto
nel torrido giugno di quest'anno di grazia 2003. Ma a tutti, mi creda, a tutti
gli italiani che hanno un po' di senso della decenza resta uno sfregio
nell'animo. Ieri, agli occhi dell'Europa e per salvare il nostro prestigio
internazionale, è nata la Repubblica del Bagaglino. Per passare alla Storia, e
per essere studiata dalle future generazioni, occorre ancora una firma.
mcmellon
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