Non nominare il nome del premier invano

L'Unità – Non sarà propriamente
Mosè, al quale si paragonò da solo in un epico show. Ma, a furia di spinte e di
aiutini da parte dei contemporanei, il Cavaliere Silvio Berlusconi incomincia
ad andare perfino oltre il suo biblico predecessore e ad assumere qualcosa di
divino.
Al punto che nel luogo simbolico e
più alto della democrazia, quello in cui si esercitano nelle forme più
penetranti e storicamente più protette i diritti e le libertà politiche, ossia
nel Parlamento sovrano, il suo nome non si può quasi più fare. O meglio, può
scappare oralmente, ci mancherebbe; ma negli atti scritti, ossia le
interrogazioni e le interpellanze, non si può. È meglio di no, non è
consigliato, non è nella prassi. È superfluo. È il nuovo principio del Senato:
non nominare il nome di Dio invano. Il grande comandamento della religione
ebraica avvolge sempre più pastoso i senatori dell'opposizione che intendano,
come è previsto nelle democrazie, sapere, controllare, adontarsi, criticare,
biasimare, interrogare. E a cascata, nel vivido gioco di luce e comandamenti
riflessi, diventano uno dopo l'altro innominabili tutti i titolari di ministeri
e perfino i loro sottoposti.

Nell'Italia berlusconiana si profila
uno spettacolo invero straordinario. Nella società dei media, dove non si
citano più nei titoli di copertina la qualifica (e talora nemmeno più il
cognome) dei personaggi pubblici; nella società di Internet e della
informazione invasiva e assoluta; nel villaggio globale dei milioni di nomi stipati
nelle banche dati; in questo mondo libero, insomma, il parlamentare, ossia la
persona che per legge è dotata del potere di parola più di qualunque cittadino,
non può scrivere il nome e cognome del capo del governo nei propri atti
formali. E anche le parole a Lui rivolte devono essere molto, molto rispettose.
Non si sa mai che i membri del governo (e Lui soprattutto) si dovessero
offendere a vedersi citati, nome e cognome, in atti ufficiali che chiedono
conto di questo o di quest'altro episodio, a vedersi abbinati a vicende
scabrose o che non fanno onore. Magari a essere oggetto di critiche affilate o
di sottili ironie proprio adesso che, con un colpo grosso da leggenda, si è
andati alla conquista totale delle televisioni esistenti e si è data una botta
in più alla libera stampa.

Direte: ma esistono direttive
autonome della presidenza del Senato? E, se sì, chi le ha firmate? O è invece
il clima autoritario che, senza intenzione, si fa sostanza, magari attraverso
la gentilezza e la competenza dei funzionari? Pare che non ve ne siano, di
direttive ufficiali. Né scritte né orali. A chi, come il sottoscritto, chiedeva
ieri in aula conto e ragione del morbo che da un po' di tempo ha colpito le
libertà di espressione dei senatori – anche della maggioranza – è stato
risposto che si è sempre fatto così. Eppure, prendiamo a caso un'interrogazione
del 2001 firmata dal senatore della Lega Massimo Dolazza, vi fu un tempo in cui
si poteva scrivere che il «professor Giuliano Amato» nel caso delle «stragi di
nostri militari» in Kosovo, dovute «con elevate probabilità» all'uranio
impoverito, aveva avuto, nel chiedere chiarimenti, «l'atteggiamento di un
postulante ai limiti dell'indigenza», con l'ammiraglio Guido Venturoni che gli
concedeva informazioni «come un'elemosina». Vi fu un tempo in cui si poteva
chiedere, nominare e criticare.

Sarà interessante vedere tra un paio
di decenni che immagine uscirà di questo Senato, per chi cercasse di studiarlo
e decifrarlo attraverso le sue interrogazioni. Un mondo popolato di cariche, di
ministri e sottosegretari e direttori generali, senza nome e senza volto. Un
Palazzo brulicante di Innominati, in un'atmosfera irreale, un po' Pirandello,
un po' Calvino, un po' Manuel Scorza. In cui i senatori, per chissà quale
sindrome mentale, si riferiscono a personaggi fantomatici, a un algido sistema
di ruoli e di funzioni, magari (perché no?) firmandosi a loro volta con il
numero di matricola, quello del loro tesserino di voto. D'altronde, se votano e
fanno le leggi senatori invisibili, sarà poi così strano se nella stessa aula i
ministri, e soprattutto Lui, aleggiano indicibili?

Ma non è finita. Perché se il
Parlamento piange, la strada non ride. Non nominare il nome di Dio invano
nemmeno lì. La polizia ha denunciato e l'autorità giudiziaria ha messo sotto
inchiesta un gruppetto di cittadini romani andati davanti all'ambasciata
tedesca nel glorioso giorno del kapo europeo. Volevano solidarizzare con la
Germania. Avevano alcuni cartelli con su scritto il nome, il fatidico nome:
Silvio Berlusconi. E accanto avevano aggiunto: ce ne vergogniamo. Lui (ho detto
Lui) l'aveva promesso a Bari, mentre un gruppetto di dissenzienti lo
apostrofava, subito dopo il caso Ricca al palazzo di giustizia di Milano: farò
identificare tutti i miei contestatori. Promessa mantenuta (questa): li sta
facendo identificare e possibilmente incriminare. Il cittadino che lo critica
nominandolo è (tecnicamente) un potenziale delinquente. Forse, dunque, è giunto
il momento di ricordare che questo governo – delle libertà – aveva messo in
testa ai suoi programmi l'abrogazione dei reati di opinione.

Oggi i suoi esponenti, che
continuano a volere quell'abrogazione per sé, querelano e chiedono danni civili
in quantità industriali, facendo fare ormai al D'Alema di Forattini la figura
del dilettante. Con il vento del potere in poppa impoveriscono e intimidiscono
oppositori e giornalisti. E se di qua fanno leggi che allargano l'immunità
parlamentare solo per insultare a proprio piacimento i magistrati sgraditi, di
là fanno capire ai parlamentari più critici che quando scrivono interrogazioni
e interpellanze devono stare bene attenti. Che è meglio ritoccare anche le
critiche più educate e che il nome, soprattutto quel nome, non lo possono fare.
Perché non sta bene, perché è prassi, perché è superfluo. Perché nell'Italia
d'oggi si fa così.

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