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Ministro senza grazia e senza giustizia
L’Unità – E così accanto al Parlamento, anzi, sopra il Parlamento, abbiamo una nuova, nuovissima categoria di legislatore: il consulente pro-veritate. Nelle (sacrosante) polemiche che si sono concentrate sul ministro della Giustizia Roberto Castelli per la sua decisione di rispedire alla procura di Milano la richiesta di rogatorie su affari e (sospette) frodi fiscali di Mediaset, un punto rischia di rimanere erroneamente ai margini. Ed è la creazione dal nulla di un nuovo legislatore, non previsto da alcun articolo e da alcun comma della Costituzione. Anzi, verrebbe da dire che in linea di principio sia proprio questa sbalorditiva invenzione la prima, grande ragione che legittima una mozione di sfiducia contro il ministro.
Proviamo infatti a riprendere il filo della spiegazione che il Guardasigilli ha dato del proprio misfatto.
La legge non era chiara, racconta. Ho allora chiesto a un esperto un parere pro-veritate sulla effettiva natura delle previsioni contenute nel lodo Schifani. L’esperto (ma guarda la combinazione…) mi ha detto che il lodo si applica anche alle indagini. E io, di fronte al responso del Profeta, ho bloccato le indagini sul capo del governo. Bene. Mettiamo da parte – ma solo per comodità di ragionamento – tutta la questione che riguarda le rogatorie e l’impossibilità giuridica di fare tornare indietro, come alla moviola, le richieste investigative partite dall’Italia. E ragioniamo solo sul celebre lodo. Meglio: ragioniamo sul ragionamento di Roberto Castelli. Ma è possibile che il ministro della Giustizia, di fronte a un provvedimento che ha diviso paese, mezzi d’informazione e Parlamento, che ha scandalizzato giuristi e magistrati, che ha messo sotto pressione la presidenza della Repubblica, non si sia chiesto, non abbia verificato, se la legge fosse chiara o no mentre veniva discussa al Senato e alla Camera? Non è possibile. Ma siccome le qualità dei nostri governanti sono quelle che sappiamo, ammettiamo pure che il ministro abbia seguito distratto o giulivo i lavori parlamentari. Ebbene, la dottrina dice che laddove vi siano dubbi interpretativi la prima cosa che si fa è andare alla fonte, cioè alla volontà del legislatore, per vedere se e in che senso questa si sia espressa. E in proposito gli atti parlamentari dicono una cosa sola. Che il legislatore, per bocca dei relatori di maggioranza, per bocca dei capigruppo delle opposizioni, con il conforto esplicito del governo, si è formalmente dichiarato contro la possibilità di estendere il previsto blocco dei processi anche alle indagini. Bastava dunque che il ministro desse incarico a uno dei suoi (molti) consulenti di leggere gli atti parlamentari e ogni dubbio sulla volontà del legislatore sarebbe stato liquidato in un mattino.
E tuttavia si può fare a questo punto una legittima seppur maliziosa ipotesi. Che il ministro sapesse benissimo quale fosse la volontà del legislatore. E che proprio per questo si sia inventato un «altro» legislatore. L’esperto a cui chiedere un parere pro-veritate, appunto. Non sappiamo chi sia questo esperto, di cui a questo punto sarebbe doveroso comunicare il nome al paese, vista la pubblica funzione che gli è stata assegnata. È un consulente del ministro, di quelli che sanno subito che cosa devono dire? È in affari con qualche studio professionale che ruota intorno, che so, a qualche imputato eccellente? È un esimio professore che troveremo, come altri prima di lui, in qualche eccellente incarico privato o di Stato tra un anno o due o in qualche ben pagato collegio difensivo di Silvio Berlusconi? Chiunque sia, comunque, egli è un legislatore abusivo, assolutamente abusivo. Ed è incredibile che questa sia la fonte (formale, si intende) di una decisione tanto grave come quella che Castelli ha assunto. Il ministro ha sfiduciato le Camere e si è fatto un «suo» legislatore. Questa è la sua prima, gravissima colpa. Ed ecco svelata finalmente qual è la vera concezione del «Parlamento sovrano» che ha la maggioranza. Sovrano, tanto sovrano da potere disfare a piacimento la Costituzione. Nullo, tanto nullo, da potere essere sconfessato da un anonimo consulente.
A questo punto però si pone un problema ulteriore. Ed è che Castelli, con il suo parere pro-veritate ha in effetti espresso la «vera» volontà del capo del governo, ossia l’anima genuina del lodo Schifani, che sempre più si rappresenta come editto Berlusconi. Questa volontà è stata dissimulata nelle dichiarazioni pubbliche e soprattutto (pare) nei colloqui con un Capo dello Stato fornito (sempre pare) di consiglieri assai ingenui e creduloni. E tuttavia essa è stata ugualmente intuita – non ci voleva molto, in verità – da diversi esponenti dell’opposizione. Che proprio per questo hanno sollevato il problema nel dibattito parlamentare, costringendo la maggioranza e il governo a pronunciarsi senza equivoci. E che poi, non contenti, hanno ugualmente denunciato l’ambiguità delle parole (che resta anche per la questione coimputati, lo sapete?) in aula. Ma c’era fretta di votare, di assecondare «il Colle» – come si sussurrava – a sua volta convinto delle promesse ricevute dal premier.
Ora quella volontà dissimulata salta fuori. E si fa realtà per la penna del ministro: l’impunità deve riguardare anche le indagini. Le lezioni da trarne sono due. La prima è che ogni volta che si china un po’ la testa, per amor di quiete o per «non esagerare» o per altro ancora, poi arrivano le legnate sulla schiena. A questo punto, francamente, le irritazioni degli onesti incominciano a essere un po’ irritanti; e i loro stupori un po’ stupefacenti. La seconda lezione, che in termini di diritto e di democrazia è la più carica di implicazioni, è che si sta sviluppando un sistema istituzionale a doppio fondo, ben al di là di quel carico di segreti e di «non detti» che ogni democrazia si porta dietro e nei quali la Repubblica italiana primeggia tra le altre. A furia di giocare alle tre carte il sistema sta impazzendo. Quando Berlusconi e i suoi negano tenacemente, con le rogatorie o con la Cirami, di fare leggi ad personam e poi lo stesso premier va davanti al Parlamento europeo e lì ammette tranquillamente di essersi fatto «solo» tre leggi per se stesso; allora è difficile dire quale sia la volontà formale del legislatore; quella cioè che fa fede e alla quale deve rifarsi l’interprete delle leggi. Perché quella volontà – anche nella sua ufficialità – è cangiante come un camaleonte. Il sistema ormai si regge e barcolla sull’ambiguità, sulla verità che si fa menzogna: regolato dal metodo del guitto che dice e smentisce, che promette e incrocia le dita dietro la schiena, che si appella al primato del Parlamento e ne fa uno zerbino. C’è un modo solo per affrontare questo impazzimento: non stare più alla regola del guitto, rompere con ogni ambiguità. In Parlamento, al Quirinale, nella pubblica opinione. O, come in un eterno gioco a mosca cieca, resteremo senza una parola che sia una parola, un’istituzione che sia un’istituzione, una legge che sia una legge.
Nando
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