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Il dilemma della Margherita
L'Unità
– È possibile, è utile ripensare Craxi per parlare della Margherita? Può
sembrare una bizzarria mentale accostare il craxismo, prodotto purissimo della
prima repubblica, a un partito che è nato per completare il passaggio alla
seconda. Eppure…Eppure Craxi e la Margherita si sono trovati ad affrontare
-entro tempi e orizzonti diversi- il medesimo problema: arricchire e
modernizzare il fronte progressista evitando uno status di minorità politica
nei confronti del maggiore partito della sinistra, ieri il Pci del trenta e
passa per cento, oggi i Ds del venti e passa per cento. Fu questo il punto
nobile della strategia craxiana. Che va giudicata ovviamente (come tutta questa
discussione) non a partire dalle proprie predilezioni partitiche ma in una
logica di sistema. Craxi voleva dar vita a un'area capace di esprimere il
dinamismo e la modernità sociale. Che pesasse nei numeri e fosse in grado di
sviluppare un'alta capacità di competizione nei confronti del Pci. E sapesse,
per questa via, favorire nuove scelte politiche in un elettorato stanco della
centralità democristiana e diffidente verso i comunisti. Ebbe l'amara sorte di
vedersi franare in mano questo disegno (nelle urne prima che di fronte ai
giudici) proprio mentre la storia decretava il fallimento del comunismo in
terra. Tralascio qui tutte le torsioni tattiche per le quali il leader
socialista cercò di guidare la propria strategia, solo in parte motivate dalla
natura del sistema elettorale. Il fatto è che, almeno ad avviso di chi scrive,
egli: a) vide con chiarezza il problema; b) ne sbagliò (all'evidenza della
storia) la soluzione. Che il problema fosse quello, d'altronde, fu confermato
dal fatto che nemmeno in un sistema dei partiti imploso la sinistra fu in grado
di raggiungere la maggioranza dei consensi alle elezioni del '94 (nonostante
fosse uscita da Tangentopoli relativamente indenne e avesse vinto in quasi
tutte le grandi città nei mesi precedenti).
La Margherita si misura a vent'anni
di distanza circa con un problema analogo. Piaccia o no, chi fa politica deve
considerare la psicologia di massa non come un'astrazione, ma come una realtà
con cui confrontarsi. E nella psicologia di massa di questo paese -e non solo
di questo paese- vi è un diffuso anticomunismo che porta anche persone aperte e
intelligenti a bollare come inaffidabile una alternativa di governo segnata
dall'egemonia degli ex-post-neo (eccetera) comunisti. Da qui la questione
spesso sollevata da Francesco Rutelli (e non solo), del certificato di piena
autonomia che la Margherita deve conquistarsi sul campo davanti all'elettorato
e, insieme, della forza numerica che il partito deve raggiungere; entrambe
condizioni di una più articolata (e convincente) geografia del centrosinistra.
Questione che ha ricadute non banali sullo stesso modo di atteggiarsi verso la
lista "uniti nell'Ulivo" e il progetto federativo. E alla quale si
deve una serie di operazioni di "smarcamento di immagine" all'insegna
del principio competitivo "non si può lasciare tutta la scena ai Ds".
Al di là del materiale spurio che si
annida in ogni strategia politica, questo è, come si dice, "il
disegno". Cambiano quindi i sistemi elettorali, ma resta identico il
problema strategico posto dalla forza che si colloca convenzionalmente "a
destra" del Pci-Ds. Epperò le analogie non si fermano qui.
Perché poi ne scatta una seconda,
che è quella che origina la presente riflessione. E che riguarda il modo in cui
viene pensata la soluzione del problema. Craxi all'inizio ebbe l'idea più felice:
quella di costruire un pensiero socialista-liberale; di investire sulla
dimensione della cultura politica. Furono gli anni di "Mondoperaio",
che raccolse intorno a sé, con effetti per nulla elitari o passeggeri, gran
parte della migliore intelligenza nazionale. Non si sa se a un certo punto egli
stimò che quella via fosse per lui troppo lunga e faticosa o troppo difficile
da padroneggiare. Fatto sta che dopo pochi anni seguì, per competere con il
Pci, una strada completamente diversa. Fatta di aspri scontri tattici, di
lacerazioni a sinistra, di anticomunismo ideologico, di alleanze ribaltabili,
di attacchi molte volte pretestuosi. Su quella strada giunsero i fischi al
Berlinguer della questione morale al congresso di Verona e l'anatema contro "gli
intellettuali dei miei stivali" che coinvolse perfino Norberto Bobbio.
Risultati della strategia perseguita? In termini di voti, come sappiamo,
modesti. Tutta la parte dinamica della società italiana che all'inizio guardò a
lui disposta a seguirlo in quella traversata culturale lo abbandonò.
L'obiettivo di "non lasciare tutta la sinistra al Pci" fu realizzato
in modo tale da lasciargliela sul serio. Si ricredettero Bobbio, Rodotà,
Pasquino, Barbera, Flores d'Arcais, Deaglio, quasi tutta la nuova sinistra sessantottina,
il mondo pubblicitario e gran parte della nuova intelligenza universitaria.
Alla fine con lui si ritrovò, come venne dimostrato in una ricerca da Guido
Martinotti, l'Italia del passato. Sotto lo spruzzo della moda milanese, ceti
poco istruiti, dipendenti pubblici, in prevalenza meridionali.
Alla Margherita rischia di capitare
qualcosa di analogo. Perché sta perseguendo -a me pare- la stessa soluzione di
quello stesso problema. La sua strada dovrebbe essere, anziché declinarsi al
passato recitando il rosario delle radici "liberali, cattoliche e
ambientaliste", quella di dar vita a una moderna, chiara cultura
democratica, e di tracciarne l'identità e la differenza rispetto alla cultura
socialdemocratica. Non è questione di proposte sui singoli settori. Ma di un
tessuto di idee e principi unitario, coerente, storicamente e socialmente
definito. Ma questa è un'impresa che richiede, più che uffici stampa o esperti
d'immagine od organizzatori di tessere (tutte competenze indispensabili, sia
ben chiaro), solidi studi, abitudine al pensiero strategico e adeguati
strumenti concettuali. Ossia la capacità di andare oltre l'ultimo editoriale di
Dahrendorf o di Diamanti o l'ultimo sondaggio di Mannheimer (tutta roba
preziosa, sia ben chiaro). E che imporrebbe un cambiamento, almeno parziale,
del gruppo dirigente. Seguire la strada dello sgambetto, delle strizzatine
d'occhio verso il fronte moderato, del matrimonio con questa o quella tesi
della maggioranza (in virtù del principio simmetrico: non possiamo lasciare
questa o quella battaglia alla destra), rischia di fare funzionare di nuovo la
legge per cui l'attuazione del motto "non si può lasciare tutto ai
ds" finisce per lasciarglielo davvero. La legge sulla fecondazione
assistita ha già dato i suoi risultati, confermati nel voto: ossia una perdita
secca di contatto con gran parte del voto laico già simpatizzante per la
Margherita. Ogni dichiarazione che renda più labile, incerta, possibilista, la
collocazione politica del partito regala voti ai ds. E, temo, ogni presa di
distanza da Prodi porterà voti ai ds (e "regalerà" davvero Prodi ai
ds). Insomma: come già accadde con Craxi, la scorciatoia tattica genera un
vuoto elettorale, specie nei grandi centri urbani del nord, là dove prima c'era
il maggiore potenziale di crescita del partito, e ne produce una tendenziale
meridionalizzazione.
Craxi intese sfruttare la sua
rendita di posizione. Ma la sopravvalutò. Tanto da portare molti non comunisti
a votare Pci nel momento storicamente più impensabile, ossia mentre si consumava
l'agonia del comunismo. Oggi, come si è visto alle elezioni di giugno, gli
spazi di rendita sono ancora minori. E per molte ragioni, dalla Bolognina alla
nascita del popolo dell'Ulivo. Sarà bene rifletterci.
mcmellon
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