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Discutere di politica per fatto personale
L'Unità – Per fatto personale. Per
fatto personale il Parlamento ha fatto la discussione più politica dell'intera
legislatura. In ventiquattro ore ha dibattuto della mafia e dello Stato, della
politica e dei processi, delle impunità e delle persecuzioni, di Tangentopoli e
dell'onore dei partiti. Il teatro della democrazia che manda in scena tanto
spesso interrogazioni di quartiere e leggine di favore si è come sollevato,
facendo uscire dalle sue viscere terrene la storia e la memoria. E ha provato a
riscrivere la prima e la seconda. Con le cose vere e con le cose false. Con gli
applausi e i silenzi, le facce contrite e le risate beffarde (stampate su
qualche viso, ci credereste?, anche al termine dell'elenco dei morti ammazzati
di mafia). Fatto personale di Luciano Violante. Fatto personale di Giulio
Andreotti. E fatti personali di tanti deputati e senatori per i quali anche la
vita in un partito è -giustamente- un fatto personale, anche la rivincita sui
censori di tempi lontani lo è; e anche quell'ossessionante rapporto di potere
tra partiti e giudici, cambiato in un amen nei vortici dei primi anni novanta.
Forse per questo ieri la
rappresentazione che al Senato dava di sé una intera classe di governo (antica
e nuova) sembrava quella di una signora o di un signore assai sformati che
incontrino, per miracolo, lo specchio dei loro sogni; lo specchio magico che
restituisce a tutti snellezza e armonie. Come si guardavano -e con quale
compiacimento!- in quello specchio magico, ossia nella assoluzione di Giulio
Andreotti, i tanti titolari dei corpi sformati di partito. Lo applaudivano e
intanto "si" applaudivano. Sempre più forte, passando dallo specchio a se
medesimi. Per dire che la mafia non ha rapporti con la politica, che la
vendemmia tangentizia non c'è mai stata, che è finita la stagione delle colpe e
delle vergogne. Non perché esse siano state abiurate. Semplicemente perché non
ci sono mai state. Solo favole raccontate da pifferai malvagi scesi un dì dai
boschi e messi finalmente in fuga. Assolto, assoluzione, lo avevamo sempre
detto, l'uso politico della magistratura, la cultura giacobina dello Stato.
Fatto personale. Ha parlato, Giulio
Andreotti. E ha raccontato la sua versione. Gerardo Chiaromonte più signore e
corretto di Violante, come presidente dell'Antimafia, benché pure lui
comunista. Falcone, Ayala e la diffidenza per certi pentiti, come quel
Pellegriti che aveva cercato di mettere di mezzo lui e Salvo Lima e che venne
incriminato subito per falsa testimonianza. Salvo Lima, certo: non una parola
su di lui, se non che la sua amicizia, testualmente, non gli
"sconsigliò" a cavallo degli anni novanta di produrre una
legislazione assai severa verso i mafiosi; anzi, tanto severa che a una parte
di esse anche Violante si oppose per ragione di lese garanzie.
Esemplare, recitavano in molti. Lei
è un esempio, si complimentavano compunti con Andreotti. L'Italia che si
guardava in quello specchio si trovava perfetta. Perfetta perché assolta in
tribunale. Anzi., più che perfetta: esemplare. Certo: Andreotti esempio di
senatore a vita che, a differenza dell'amico Cossiga, sta in aula, ascolta,
prende appunti e interviene. Andreotti esempio di imputato che, a differenza di
Berlusconi e Previti, non si fa le leggi a sua misura, non si sottrae ai
processi e si difende in tribunale.
Però, come cambia il senso delle
parole. Ricordo l'esempio di Giorgio Ambrosoli, l'avvocato scelto dalla Banca
d'Italia a difendere gli interessi dei risparmiatori di fronte alla potenza
mafiosa finanziaria e piduista di Michele Sindona, l'uomo che lo avrebbe fatto
assassinare. Sì, proprio quel Sindona definito da Andreotti "salvatore della
lira" e poi rimasto in contatto con il suo protettore, presidente del
consiglio, mentre era latitante in America, inseguito dalla giustizia italiana.
Ebbe la medaglia d'oro al valor civile, Giorgio Ambrosoli. Oggi sono esemplari
tutti e due. L'amico di Sindona e la vittima di Sindona. Pari opportunità,
please. Medaglie d'oro e anche funerali: una fila sconvolgente, perché
magistrati e forze dell'ordine (non tutti, ma molti sì) il loro dovere lo hanno
veramente fatto. Per uno scherzo del destino, una coincidenza inaspettata anzi,
ieri mattina il dibattito sul terrorismo era più volte sfociato proprio
nell'invito appassionato a non dimenticare le vittime del dovere dopo qualche
tempo. Ecco fatto. Tre ore, quattro ore erano trascorsi in quella stessa aula e
già l'esempio non erano più loro che si erano battuti -i donchisciotte, i
guasconi, i protagonisti- contro la mafia. Esempio era diventato il referente
politico di chi prendeva per certo, ossia stando alle sentenze, i voti della
mafia. Colui che per certo, ossia secondo sentenza, aveva avuto rapporti
diretti con gli uomini di Cosa Nostra. Non basta dire che non era reato.
Bisogna dire di più ormai: esemplare. Perché sia specchio di un paese senza più
debiti con la sua coscienza.
Per fatto personale. L'ho sentita,
l'ho sentita anch'io, la voce di Andreotti incrinarsi quando, parlando infine
del «doppio macigno di infamanti accuse», ha ringraziato i colleghi deputati e
senatori che «non mi hanno mai fatto sentire solo». E poiché in ciascuno di noi
vi è (per fortuna, direi) una irriducibile riserva di amore verso il prossimo,
di pietas che mai si inaridisce, ho avvertito in me (non mi vergogno a dirlo)
un inizio di compassione. Poi è stato come se la memoria mi tirasse in pieno
viso uno schiaffo da far male. Mi sono rivisto ventun anni fa inginocchiato
accanto a un telefono alla notizia che avevano ucciso il prefetto di Palermo. E
ho pensato ad altro, ho riavuto altra compassione. Mi sono rivisto mentre
ascoltavo e mentre leggevo, prima e dopo la morte. Ho rivisto le frasi, la
grafia minuta, il diario. «Gli andreottiani ci sono dentro fino al collo». «La
famiglia politica più inquinata del luogo», scritto su tanto di carta intestata
al presidente del Consiglio Spadolini, con riferimento proprio a quella
corrente andreottiana che lo andava pubblicamente ostacolando. Una lettera
disperata. E il passo sconvolgente del suo diario sul suo incontro (primi di
aprile dell'82) con il leader democristiano, che al processo ribatterà,
irridente, «Mi avrà confuso con qualcun altro». E poi lo scrupolo politico e
morale, etico e civile, del leader massimo della corrente di Salvo Lima e dei
cugini Nino e Ignazio Salvo (mai conosciuti, per carità) dopo l'assassinio del
prefetto. Se è vero, come si è detto ieri parlando di terrorismo, che le parole
sono pietre e addirittura, a volte, possono essere pallottole, ecco le parole
di Andreotti ai suoi uomini in Sicilia dopo il delitto: «Voi democristiani siciliani
siete forti e per questo dicono male di voi. Se foste deboli nessuno si
curerebbe di voi. Respingiamo il falso moralismo di chi ha la bava alla bocca
mentre rafforzate le vostre posizioni ad ogni elezione». Applausi, un uragano
di applausi. Durante il quale il leader venuto da Roma invitò anche i presenti
a "smitizzare" Dalla Chiesa.
Per fatto personale. Parlava ieri,
Andreotti, e citava il delitto e il processo Dalla Chiesa. Ma tutto questo
-immagini, parole, ambienti, dolore- in ciò che lui diceva non c'entrava
neanche di striscio. Questi erano ricordi esclusivamente miei, di me che mi
stavo anche commuovendo per lui sotto l'incalzare della buriana che tutto
rovescia, tutto travolge, pretendendo di riscrivere la storia. Avrei voluto
allora parlare anch'io per fatto personale. Mai, venti anni fa, quando accusai
Andreotti -politicamente, culturalmente, si intende, e un decennio prima delle
procure-, mai avrei immaginato di vivere questi momenti in parlamento. Non io
che gridavo le mie ragioni, ma lui che rivendicava la sua innocenza, anche
politica, nel mio assoluto silenzio regolamentare. Già, formalmente nessuno mi
aveva offeso, quale fatto personale potevo invocare? Né potevo parlare a nome
della Margherita, trattandosi per l'appunto…di un fatto personale. Esemplare,
il vecchio leader. Lo so, lo so: almeno da un certo punto in poi, non ha
commesso reati. Eppure io ricordo quell'intervista fattagli alla festa
dell'Amicizia da Giampaolo Pansa pochi giorni dopo il delitto. Ma lei, gli
chiese Pansa, non prova come dirigente storico di un partito di governo, "anche
un senso di colpa" (non di più, badate!) di fronte all'Italia di Sindona e
delle morti di Pecorelli, di Ambrosoli, di Calvi, di Moro, di dalla Chiesa?
Andreotti, l'Andreotti che (giustamente) ci ha chiesto di distinguere
responsabilità penale da responsabilità politica, rispose brutalmente: «Nemmeno
un poco!» . E quando Pansa gli accennò ai troppi funerali di morti ammazzati in
Sicilia, non rammento ora se chiedendogli anche perché lui non fosse andato ai
funerali del prefetto di Palermo, il leader democristiano rispose così:
«preferisco andare ai battesimi». Il pubblico rideva e applaudiva. Applaudiva
lo specchio di un' Italia senza colpe e senza vergogne dove però gli uomini
dello Stato cadevano come birilli. Scusatemi, scusatemi davvero se ve l'ho
raccontato. Anch'io, lo ammetto, per fatto personale.
mcmellon
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