Carabinieri

L'Unità – Carabinieri. Nel giorno
del lutto si corre certo il rischio della retorica. Ma anche quello di non dire
e di tacere ingiustamente, per paura della retorica. È difficile la misura
quando il paese vive uno dei momenti più dolorosi della sua storia recente. E
ha riscoperto per l'ennesima volta di volere bene all'Arma. Difficile, specie
per chi ha la mia storia, non parlare di questo rapporto, intenso, secolare,
che unisce i carabinieri al popolo italiano. Rapporto dalle mille sfumature.
Cresciuto nel tempo, impreziositosi nel tempo. Non c'è istituzione dello Stato,
salva (e non sempre) quella del presidente della Repubblica, che raccolga
intorno a sé la stessa fiducia o la stessa considerazione. E non è un caso.
L'Arma ha tenacemente cercato questo rapporto, che sta anzi all'origine della
sua stessa funzione e divisa. Basta risfogliare i calendari dell'Arma, le loro
copertine oleografiche, per misurare – nelle forme più mutevoli – la forza di
questa cultura. Il carabiniere che tiene per mano il bambino, il carabiniere
che soccorre un bisognoso, il carabiniere che porta aiuto alle popolazioni.

Cambiano le tecnologie che fanno da
sfondo (perché anche la modernità del messaggio è d'obbligo nell'Arma), ma
uguale resta la funzione, la «mission» si dice oggi, dell'istituzione. Così
anche i discorsi dei comandanti, almeno di quelli più interni alla lunghissima
storia degli alamari, non riescono mai a evitare i riferimenti, a volte
asciutti a volte ampollosi, all'ideale del sacrificio per gli altri, si tratti
di Salvo D'Acquisto o dei «militi» impegnati nei soccorsi in qualche terremoto,
delle vittime del terrorismo o della mafia, fino – oggi – a quelle delle missioni
di pace. Il carabiniere, insomma, immaginato come diga o appiglio di fronte
alle abiezioni sociali o alle catastrofi naturali.

C'è chi pensa, per convenzione
mentale, ma anche perché spesso il linguaggio militare tradisce aulicità e
influenze dannunziane, che tutto ciò sia puro apparato retorico. Di fronte al
quale si staglierebbe una verità più prosaica. Comprensiva sì di slanci
altruistici e di dedizione quotidiana, ma anche di misteri politici (dal
bandito Giuliano a De Lorenzo al caso Moro) o di abusi di piazza, alcuni dei
quali conclusisi con fatti di sangue e di violenza in danno dei manifestanti
(ultimo esempio quello di Carlo Giuliani a Genova). Insomma, una verità di luci
e ombre, in chiaroscuro, nella quale bisogna distinguere tra fatti e fatti, tra
persone e persone. Fermo restando che questa distinzione debba sempre essere la
nostra stella polare nel giudicare le umane cose, la storia dell'Arma è però
cosa diversa da questo ritratto in chiaroscuro. In essa si produce infatti, per
orgoglio, per tradizione, per senso – appunto – della missione, un enorme e
collettivo sforzo quotidiano di selezione degli uomini (e ora anche delle
donne), e di promozione delle loro qualità migliori sul piano umano e
professionale. È un lavoro incessante che inizia con gli allievi carabinieri e
termina con gli ufficiali superiori. Fatto bene e fatto più superficialmente.
Ma volto a produrre regole di comportamento, modalità di pensiero, confini tra
ciò che si può e non si può fare. A predisporre e rimotivare all'obbedienza e
alla lealtà verso le istituzioni. Spesso, lo sappiamo, l'attività concreta può
essere soggetta a critica. Ma è attività condotta assai spesso in mezzo
all'imprevisto, alla difficoltà operativa; perché gli ordini superiori possono
arrivare fino a un certo punto, poi però c'è qualcuno che in quel secondo, in
quello specifico secondo, deve affrontare quel rischio, quel problema, magari
avendo alle spalle gli studi che a un normale cittadino non consentirebbero
nemmeno di evadere una normale pratica burocratica.

«Usi obbedir tacendo e tacendo
morir» non è dunque un motto pomposo ed esangue al tempo stesso. Riflette la
storia concreta di un'Arma che ha coltivato con gelosia il suo status di «prima
Arma dell'Esercito» e che della propria lealtà ai governi e alle supreme
istituzioni ha fatto un vanto, tanto da fornire la guardia scelta (i
corazzieri) alla massima istituzione repubblicana e da essere stata prima,
durante il ventennio, assai più fedele alla monarchia che al duce, offrendo
adesioni ed eroismi ben noti alla stessa Resistenza. Mi si permetta in
proposito di citare un «Galateo del Carabiniere» edito nel 1873 a uso degli allievi
carabinieri. Un Galateo che dovrebbe essere riletto oggi dai cittadini per
capire quali siano state le basi etiche dello Stato risorgimentale e – al suo
interno – di questa Arma che si paragonava alla Gendarmeria repubblicana della
rivoluzione francese, facendo così risalire la propria origine ai grandi
principi di cittadinanza e di uguaglianza dell'Europa contemporanea. Si trovano
già lì, infatti, gli insegnamenti che fanno dei Carabinieri un «corpo» sociale
diverso che, pur volendo essere «espressione del popolo», non vuole però
essere, come diremmo adesso, «fotografia del popolo». Vediamo dunque cosa
recitava quel Galateo, al paragrafo «Sentimento del dovere»: «Ecco dunque
perché pel carabiniere si proibiscono cose che sebbene sieno per se stesse
innocentissime e sieno da altri giornalmente usate, tuttavia scemerebbero
quella dignità che al suo carattere specialmente è dovuta». È questo, non
altro, il centro di ogni riflessione sull'Arma (e su ogni democrazia
funzionante). L'onore e il prestigio della divisa vietano non solo le cose
illecite ma anche tante scelte e tanti comportamenti perfettamente ammissibili
per legge. Messaggio, questo, che può ovviamente essere tradito nella pratica
quotidiana. Ma che nel suo stesso enunciato è assolutamente rivoluzionario se
applicato alla vita pubblica di oggi e a coloro che, ben più che l'allievo
carabiniere, vi esercitino ruoli di responsabilità e di comando. Messaggio
rivoluzionario se applicato a una società in cui troppe volte, di fronte al
degrado che tocca questo o quell'ambito sociale, ci sentiamo opporre la ragione
che un' istituzione o la politica in generale non fanno, in fondo e
incolpevolmente, che fotografare la società in cui operano.

È insomma questo sforzo di «dare di
più» che va compreso, per capire la storia dell'Arma e di coloro che, con la
famiglia al seguito – silenziosa anch'essa -, hanno vissuto al suo servizio da una
parte all'altra d'Italia. È qui, in questo sforzo (che può non riuscire e
spesso non riesce, ma che segna pur una distanza dall'etica pubblica
dominante), che trova ragione non solo il coraggio di chi è caduto affrontando
consapevolmente il rischio più alto, negli anni o nelle regioni di piombo; ma
anche l'eroismo imprevisto e certo indesiderato di chi, nella più rituale
attività in luoghi tranquilli, ha – per dovere – perso la vita a un posto di
blocco, affrontando un rapinatore, portando soccorso a uno sconosciuto.

Oggi l'Italia guarda con dolore
affettuoso i suoi nuovi carabinieri caduti, e insieme con loro gli altri caduti
militari e civili. Di nuovo piange un'obbedienza silenziosa, sia pure
incentivata dal sogno di pagare le cure al figlio, di soddisfare un mutuo per
la casa, o da altre umanissime ragioni. Di nuovo, quale che fosse la strategia
del governo, viene pagata la convinzione e la volontà di portare le proprie
capacità al servizio di un ideale di altruismo, di aiutare qualcuno, sia pure più
lontano, molto più lontano del solito. I cittadini guarderanno alla Basilica di
San Paolo con occhi più o meno pronti a inumidirsi. In ognuno di noi però sta
il senso della tragedia immanente, che non vorremmo assorbita dai rituali e
dalla frenesia dei media che si mangiano il tempo e lo strazio.

In me che in Senato, lo scorso 19
marzo, ho partecipato al voto che benedisse l'appoggio a questa guerra, oltre
al dolore starà l'angoscia di un'immagine. Quella di mezzo Senato e più in
piedi ad applaudire festante, all'ora della cena, 20,35, l'appoggio che avrebbe
poi legittimato l'invio dei nostri militari. Ne scrissi a suo tempo su queste
pagine. Fu una scena sconvolgente. Gli applausi da gran festa, da cerimonia che
ci innalza a vincitori. Quasi la standing ovation che chiude o apre uno
spettacolo di gala. Gli evviva di chi sarebbe rimasto a casa. Poi qualcuno
partì. E tutti scoprirono che non era una festa. Che non è una festa. Riposino
in pace. E che nessuno ne perda la memoria.

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