Prodi Bollito? Datemene cento

la vulgata serve ai perdenti per
credere al pareggio:
se ha perso Berlusconi, ha perso
anche lui…

E i terzisti son contenti

L'Unità
Dunque Prodi è bollito? Prima di essere ufficializzata, questa idea –
sotto forma di affermazione, per la verità, piu' che di domanda – aveva preso
corpo da qualche settimana in un'area a circolazione limitata. Qualche recinto
politico, qualche terrazza romana, qualche affabile crocicchio tra redazioni e
agenzie mediatiche. Poca cosa, ma sufficiente a richiedere un paio di risposte.
La prima, la piu' importante, l'ha data Prodi stesso. Voglio le primarie, ha
detto a Padova; le primarie per scegliere il leader della coalizione piu'
ampia. Ossia un bel processo di selezione democratica come da tempo viene
richiesto e promesso; e come da altrettanto tempo viene (a tutti i livelli)
disatteso. Che sia dunque il popolo dell'Ulivo o, se si vuole, di tutto il
centrosinistra, a decidere a chi affidare le proprie sorti. Già un messaggio di
questo genere getta nella vita e nella lotta democratica tanto di quel vento
nuovo da liquidare d'un colpo ogni pigro o malizioso riferimento a muffe
ideologiche, a metodi gia' visti, a operazioni di lifting politico. Le primarie
sono infatti un formidabile moltiplicatore di idee e di partecipazione. E
costringono le (sempre legittime) ambizioni a scoprirsi, a diventare una
salutare occasione di valutazione e di confronto. Finiscono dunque i giochi da
società di corte, si essiccano le intelligenze da idi di marzo, prende aria la
politica come risorsa nobile della società per progettare il proprio futuro.

E precisamente qui, sul progetto,
sulla sua necessità, sui modi della sua formazione, si fonda la seconda
risposta che occorre dare alla vulgata del "Prodi bollito" (giusto
per sintonizzarci sulle eleganti frequenze dell'odierna linguistica politica).
Romano Prodi ha dunque annunciato che viaggera' per l'Italia con la finalita'
di "ascoltare, ascoltare, ascoltare". E che questo farà proprio per
costruire il nuovo programma per l'Italia. E questa è certo una novità in un
paese in cui non si ascolta, dove la capacità di ascolto è la grande, terribile
assente tanto nella scuola dell'obbligo dei quartieri degradati quanto nelle
sfere privilegiate della politica e del giornalismo. Ascoltare è diverso da
andare a fare propaganda, anche se la scelta di ascoltare può certo portare (e
meno male…) consensi supplementari. Ma ascoltare e' necessario. Chi sostiene
il contrario, argomentando che i problemi del paese siano già tutti ben
rappresentati nelle inchieste della stampa o nelle ricerche degli istituti
specializzati – universitari o non -, non ha davvero idea della distanza che
corre tra i tempi in cui avvengono i cambiamenti e i tempi in cui essi vengono
prima percepiti, poi trasmessi alle agenzie che hanno il compito di descriverli
e raccontarli, poi ulteriormente trasmessi a chi ha il compito di dare una
trascrizione scientifica a essi e ai problemi conseguenti. Se devo fare appello
alla mia esperienza di sociologo dotato di una qualche curiosita', diro' che
l'intervallo tra il cambiamento e la sua consapevolezza sociale (non dico
istituzionale) è in media di tre-quattro anni, con in più la possibilita' che
il cambiamento, interessando strati e attori senza voce, non giunga addirittura
a nessun luogo di elaborazione o decisione per molto tempo.

Un viaggio per l'Italia fatto in prima
persona per elaborare, con tutti gli aiuti utili, il nuovo programma di
governo.

Questa e', voglio dire, la novita'.
Non il programma stanco e senz'anima fatto in serie a tavolino. Non il
programma mirabolante e irresponsabile che fotografa i desideri trasmessi dai
sondaggi. Ma il programma che vede e interpreta originalmente secondo una gamma
di valori definiti. Si tratta di un'operazione che non può che essere plurale.
Ma che deve avere un regista. Il quale a sua volta deve avere gli strumenti intellettuali,
culturali e di esperienza per essere regista creativo. Ebbene, Romano Prodi è
il leader politico oggi più in grado di svolgere questa funzione. E di
svolgerla accendendo anche la fantasia della gente ulivista; alla quale e'
rimasto l'amaro in bocca di averlo visto defenestrare dopo un anno e mezzo di
governo e fortemente lo rivuole, per lo stesso meccanismo psicologico che portò
l'Italia berlusconiana a inseguire il sogno del proprio leader al governo per
tutto il tempo compreso tra il ribaltone del '94 e il 2001. E' lui soprattutto
il leader capace di selezionare problemi e risposte pensando, prima ancora che
alla visibilità mediatica e agli equilibri di partito, al paese reale e alle
sue risorse e speranze; di tenere nel debito conto la fitta logica di
interdipendenze, istituzionali, economiche, culturali, morali, con cui ogni
scelta è chiamata a misurarsi.

Dunque, se questo è vero, non
dovrebbero esserci dubbi. Il guaio è che, al di là delle aspirazioni personali
che si sono sedimentate o si stanno sedimentando nel centrosinistra, si
rappresenta a noi un problema ben più serio, che ha una portata storica da
affrontare con ogni intelligenza politica. Ed è la sindrome della sconfitta che
sta operando nello schieramento opposto, quello uscito con tanto di cicatrici
dalle elezioni europee e soprattutto amministrative. E' un fenomeno che già
abbiamo conosciuto nei primi anni novanta, quando sotto i colpi di Tangentopoli
(e del libero voto popolare) crollarono i partiti-cardine del vecchio sistema
politico. Fu allora, nel fuoco di quella crisi, che venne lanciata e creduta la
suggestiva idea che il paese fosse stato fin lì governato anche dai comunisti
(che pure avevano avuto significative forme di partecipazione al governo
locale). Una parte di elettorato, specie nella sua componente socialmente più
qualificata, non poteva accettare l'idea che un pezzo del sistema, quello di
opposizione, rimanesse in piedi, tanto più dopo che l'89 ne aveva sconfessato
il retroterra storico e  ideologico.
Perciò ebbe bisogno di teorizzare che tutte e due le parti del sistema  – governo e opposizione- fossero espressione
del declino e della corruzione in egual misura (vedi un po' la teoria del
pareggio…). E propose di azzerare tutto saltando a pie' pari su soggetti
completamente nuovi,  non compromessi,
radunati (compreso il vecchio Msi) sotto l'egida rivoluzionaria di Silvio
Berlusconi.

Ora sta accadendo di nuovo qualcosa
del genere. Se Berlusconi ha perso colpi e credibilità, se egli non parla più
al futuro del paese, anche Prodi deve essere logora espressione del passato,
anche lui deve emanare odore di stantio. Signori, siamo in pareggio. Chi ha
scelto la parte travolta dalla storia, rifiuta di sentirsi perdente. In realtà
-questa diventa la soluzione subliminale ai propri problemi di identità- i
grandi duellanti stanno perdendo tutti e due. Per usare il linguaggio della
stampa inglese, sono entrambi "unfit". Ricominciamo di nuovo
daccapo.  E i celebri terzisti? Loro sono
d'accordo. Tutto sommato hanno un'ottima, ancora più solida ragione per
spiegare perché non si sono schierati né con gli uni né con gli altri, nemmeno
quando Berlusconi massacrava lo Stato di diritto. Davvero possiamo essere
subalterni a questa logica? Ben vengano dunque le primarie. E vadano a carte quarantotto
i riti e le incrostazioni culturali della politica italiana. Per favore,
datecene cento, di bolliti cosi…

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