Quando il morto è di sinistra

L'Unità
Lo sputo beffardo su un condannato a morte. Anche questo abbiamo dovuto
vedere. Roba che nei film si delega al cattivo, al più vigliacco della banda,
all'attore su cui una volta – nei mille cinema Paradiso sparsi per l'Italia –
il pubblico indignato scagliava insulti e maledizioni come se la scena fosse
vera. A Enzo Baldoni lo sputo è arrivato purtroppo nella realtà vera, anche se
forse non se ne è accorto. Ed è arrivato pubblicamente. Dalla nazione che avrebbe
dovuto trepidare per lui, per la sua vita. Compatta, insieme. Perché italiano,
pur se italiano convinto che anche gli altri popoli abbiano o possano avere
ragioni o diritti. Il «codardo oltraggio» del Manzoni, quello spregevole gesto
eguale e opposto al «servo encomio», non poteva trovare una rappresentazione
più nitida.

Quando Baldoni stava per morire, e
poi quando Baldoni era già morto, e poi ancora quando già si sapeva che Baldoni
era stato ucciso. Insomma nella agghiacciante sequenza attraverso cui questo
civilissimo paese ha visto un quotidiano sbeffeggiare una vittima annunciata.
Come forse mai era accaduto. Se è vero che la guerra tira fuori il peggio degli
uomini su ogni fronte, ne abbiamo avuto la riprova.

Intendiamoci, «Libero», perché questo
è il quotidiano che si è distinto nell'opera senza precedenti, ha probabilmente
dato fiato a una cultura che non nasce in quella redazione. Bisogna averne
consapevolezza. Nei titoli, nei toni, nel gioco di foto, occhielli e
«catenacci», si è espresso a meraviglia quel «plebeismo borghese», ossimoro
diventato realtà, che è da un po¹ di anni la vera metastasi civile nella grassa
Italia padana, il grande problema con cui ogni decente progetto di governo
dovrà seriamente e strenuamente fare i conti.

Non vi è dubbio: anche se spesso
dalle parti di quella redazione si inneggia alla chiarezza del parlare (e in
effetti davvero strepitosa è stata la chiarezza anche in questa occasione), si
farà ogni sforzo causidico, si tenterà ogni acrobazia logica per dimostrare che
in fondo si voleva salvare, in un modo un po¹ diverso, magari – ci giurereste?
– in modo meno conformista, la pelle del giornalista assassinato.

Ma è drammaticamente ancora più
certo che nelle ore dell'angoscia il giornale in questione si è coerentemente
adoperato per rendere un po' buffonesca, fino al surreale, l¹attesa (la paura)
di una esecuzione capitale. «Che barba, che noia, non mi rapiscono». «Spero che
mi rapiscano». «Il vacanziere col brivido». «Il turista del giornalismo». «Un
simpatico pirlacchione». «Il giornalista italiano che cercava brividi in Iraq»
(scritto dopo la notizia dell¹assassinio). Miscelando abilmente una passata
avventura colombiana e il rapimento dell¹Esercito islamico, la tragedia di
Baldoni è stata derubricata ad altro. Un alto in cui si mescolavano irrisione
per la vittima, il dileggio per l¹inviato pacifista finito nei guai, il
divertito rimprovero di essersela cercata.

Tutti ingredienti che in sé, presi
singolarmente, non sono nuovi in certi ambienti umani. La sola storia della
lotta alla mafia o alle corruzioni grandi e piccole del Paese ne è strapiena.
Ma il loro montare contemporaneo mentre la persona è già nelle mani del
carnefice, questo è semplicemente terrificante. Perché svela anche ai ciechi
che una misura è stata superata. Che per una cultura di destra comunque forte
nel Paese non esistono limiti di sorta alla faziosità politica. Baldoni è
pacifista. Baldoni è inviato del «Diario». Baldoni è (così ci è stato detto)
antiberlusconiano. Dunque la sua vita conta meno. Se contasse come le altre,
non gli si sputerebbe addosso prima e dopo la esecuzione. Si avrebbe un attimo,
solo un attimo di ripensamento, di raccoglimento, di ansia. Di ansia vera,
intendo. Non quella che porta a colloquiare idealmente con i rapitori per
dirgli di rilasciarlo, così da amante del brivido continuerà a far danni al suo
paese e a scrivere bene di loro. Non quella che porta a ipotizzare che sia
tutta una sceneggiata per recitare un rabdomante dell¹avventura. Il quale, da
bravo professionista delle sceneggiate, appare nel video «troppo sereno».

Se la sua vita contasse non si
scriverebbe che «i rapitori non hanno esitato a sparargli anche se era amico
loro»; ossia che Baldoni era amico degli assassini, loro complice, solo perché
contrario alla guerra. Non esiste pietas per il plebeismo borghese che,
vedrete, nei prossimi mesi si affannerà (quando si discuterà di fecondazione
assistita) a predicarci la sacralità della vita umana, in tutte le sue forme,
perché è la vita in sé che è sacra. Non vi è in esso ombra di quella pietas che
è fondatrice – e non per caso – di tutte le civiltà mediterranee, nel mito e
nella leggenda come nel diritto. E, correlativamente, non c¹è il pensiero che
consente di distinguere, di capire, di non trasformare l¹altro, alla fine, in
complice di assassini. Non c¹è infine il pudore, figlio della pietas e del
pensiero.

È stato scritto, sempre su «Libero»,
che Baldoni avrebbe fatto la fine di Quattrocchi, ossia «del suo nemico
ideologico». Ecco alfine l¹idea archetipica: Baldoni e Quattrocchi nemici, tra
i quali dunque occorrerebbe schierarsi (uno amico, l¹altro nemico); non due
italiani uccisi in Iraq, andati in Iraq con culture e finalità diverse.

È vero che nei bassifondi della
sinistra di Internet, come ha ricordato Michele Serra, si sono dette su
Quattrocchi cose nauseanti. Ma mai sui giornali, nei dibattiti, nelle posizioni
ufficiali e responsabili della formazione dell¹opinione pubblica, alcun
esponente politico, civile, intellettuale della sinistra si è sognato di pronunciare
o scrivere frasi men che rispettose verso il valore colpito della vita. Sono
stato, in silenzio e senza riflettori, nella casa di Stefio e nella casa di
Quattrocchi. Ho provato angoscia e dolore per loro. E proprio per questo la
rappresentazione dei «due nemici» (il vigilante privato e il giornalista
pacifista) m¹appare oggi francamente insultante per noi come italiani.

Tornano in mente, davanti al
plebeismo borghese, le discussioni lette per l¹ennesima volta in queste
settimane, sulla egemonia culturale della sinistra. E la domanda sorge oggi
spontanea, inarrestabile. Ma davvero è colpa della sinistra se questa destra
non riesce a produrre egemonia culturale? Ma scusate, quando lo sputo si fa
parola, quando i fragori interiori si fanno pensiero, quali poeti, quali
romanzieri, quali registi, quali filosofi, quali giuristi vorrete mai che
nascano e che non durino il tempo di una moda o di un protettore politico? Di
chi è la colpa se nemmeno le tragedie che elevano in genere gli spiriti e le
menti riescono qui a favorire le dimensioni del rispetto, della riflessione,
della umana condivisione?

Ci piacerebbe che, proprio per
l¹attenzione con cui li seguiamo, qualcosa dicessero i celebri «terzisti». Che
stavolta trovassero l¹immane coraggio di dire che questo capitolo della nostra
vita pubblica ha qualcosa di spregevole e di allarmante. Chi è al di sopra
delle parti o equidistante, in fondo, non deve preoccuparsi di sembrarlo sempre
nello stesso articolo o commento. Meglio, più credibile, essere netti e indipendenti
di volta in volta di fronte alle singole vicende.

Chi ha dunque qualcosa da dire sullo
sputo beffardo sul condannato a morte?

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