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Brusca: misura per misura
L'Unità
– Ma perché quando c'è di mezzo la mafia è così difficile capirsi?
Intendersi sull'abicì della logica e del buon senso? Sembra quasi che la
materia, grondante com'è di sangue, scagli una sua speciale maledizione su chi
l'avvicina. Brusca e i premi ai pentiti. Andreotti e i fatti raccontati dai
pentiti. I colpevoli e gli innocenti, i diavoli e i santi, il diritto caldo che
si traveste da diritto freddo e viceversa. Quando riconquista le prime pagine
dopo i lunghi letarghi di cronaca, la mafia surriscalda animi e menti. È giusto
o no dare i premi a Giovanni Brusca, giusto immaginare di mandarlo tra un po'
agli arresti domiciliari? Infamia, attentato al diritto per gli uni. Roba ovvia
e prevista dalla legge per gli altri. E Andreotti, lui, è un galantuomo perché
assolto con certificato di prescrizione?
Gli uni, i turiboli del Palazzo, già
ondeggiano spargendo incenso dolciastro a lui d'intorno. Gli altri provano a
obiettare ma – in questo caso – non hanno diritto di parola.
Partiamo dai pentiti, anzitutto: che
pentiti non sono e non si pretende che siano, come si prova a ripetere
inutilmente da vent'anni. Sono mafiosi, grandi o piccoli, che decidono di
collaborare con lo Stato. Per le più varie ragioni. Per scampare all'ergastolo,
per spuntare benefici per i parenti, per non finir morti ammazzati in una
guerra di mafia, per i calcoli più cinici, talora per rifarsi una vita ma senza
l'ambizione di passar per angeli. I pentiti di mafia, si sa, non hanno goduto
dello stesso favore dei pentiti del terrorismo. Perché il capo brigatista che
parla manda in galera i suoi pari o i suoi miliziani semplici. Difficilmente –
data la natura del terrorismo – inguaia assessori o ministri. Se parla il capo
mafioso, invece, può dire cose sgradite anche su assessori e ministri. E salir
su su fino ai livelli eccelsi della politica. Da qui l'ostilità, non sempre
dissimulata, per questi picciotti che se la fanno con gli sbirri, giusto per
usare un linguaggio ricorrente tra qualche assessore regionale in Sicilia. Da
qui la polemica costante contro il patto di generosità che lo Stato stringe con
i mafiosi che collaborano. Un patto, lo si ricordi, che nasce da un
riconoscimento della forza dello Stato; e della credibilità dei suoi
rappresentanti. E che gli dà forza ulteriore, purché i frutti del patto vengano
amministrati con saggezza. Forza ulteriore per colpire il nemico e per salvare
vite e diritti altrimenti minacciati – in linea generale – dalla presenza
agguerrita e indisturbata dei clan. Insomma, non c'è molto da spiegare. Gli
stessi familiari delle vittime, proprio perché hanno capito sulla loro pelle le
ragioni della forza mafiosa e proprio per l'amore che portano alla memoria di
chi è caduto, hanno accettato in genere il senso e l'utilità di questo patto.
Essi imparano infatti ben presto che la vera giustizia per i loro cari non è
una somma di anni in carcere per una certa quantità di persone, ma la sconfitta
della mafia.
Tuttavia questo patto non è qualcosa
da amministrare con freddezza contabile e burocratica (il famoso "diritto
freddo", che su queste pagine celebrammo in occasione della sentenza "liberi
tutti" di Porto Marghera). La scelta di concedere benefici ai cosiddetti
pentiti in cambio dei loro (insostituibili) racconti dall'interno di Cosa
nostra non è una scelta fredda. Ma misura valori altissimi, li bilancia, sempre
con lo scrupolo (caldo, partecipe, accidenti) di violare qualcosa e,
all'opposto, di non difendere abbastanza qualcos'altro: affetti individuali,
certezza della pena, vite ed esistenze collettive, democrazia, forza delle istituzioni.
Il patto vive dunque come costante tensione interna alla nozione di Stato di
diritto. Tensione tra opposti che va gestita con delicatezza e acume di
spirito. Perché se la tensione non viene avvertita, giunge il momento in cui
salta il senso naturale della giustizia. Il quale esiste. È storicamente
determinato, ma esiste. E per certi valori va oltre i condizionamenti stessi
della storia. Non è questo il luogo per impiantare una disputa di dottrina. Ma
il diritto positivo, se ha ragione di volersi affermare sugli istinti e sui
sentimenti più profondi, non può nemmeno immaginare di vagare come un fantasma
al di sopra della storia umana in carne e ossa. Pena la sua delegittimazione.
Perfino il sommo Hans Kelsen, che pure irrise con teoria sopraffina alle
ragioni del diritto naturale, dovette comunque farci i conti fino all'ultima
riga dei suoi massimi trattati.
Che vuol dire dunque, tornando alle
misure già accordate o previste per il "pentito" Giovanni Brusca, che la legge
"le prevede"? Vuol solo dire che la legge le rende possibili. Non che le renda
obbligatorie. Ma che le rimette al prudente apprezzamento del giudice. E la
prudenza non è, come spesso si pensa, freddo disincanto. La prudenza è
tormento, responsabilità macerata. E la prudenza ci suggerisce quanto segue.
Chi meriterebbe un ergastolo può ottenere anzitutto, in cambio della sua
collaborazione, un forte sconto di pena. Può poi trascorrere la sua pena (già
fortemente ridotta) in condizioni assai meno punitive di quelle previste per i
mafiosi che restano nelle file di Cosa nostra. Può (deve) ottenere anche la
protezione dei propri parenti; e magari pure un aiuto economico per loro.
Beneficio, quest'ultimo, che è stato spesso causa di aspre e pretestuose
polemiche. Il ragionamento diventa più complicato per chi meriterebbe decine di
ergastoli (Brusca si è accollato un centinaio di omicidi…). Ma la logica
resta quella, fermo restando che la ragion di Stato difficilmente può arrivare
a mettere un pluriomicida eversivo sullo stesso piano di un ladro. Diventa però
arduo sostenere che il pluriomicida che collabora possa ottenere premi per la
sua buona condotta in carcere. Perché se egli in carcere avesse atteggiamenti
anti-istituzionali, occorrerebbe dedurne che il suo stesso status di "pentito"
dovrebbe essere rivisto. La buona condotta è una conseguenza necessaria del
patto, non un comportamento da premiare a parte, come per i normali detenuti o
– concediamolo – per un mafioso che si sia macchiato di delitti minori,
comunque meno eclatanti e sconvolgenti di quelli di Brusca.
La misura, la misura. Non altro si
chiede dunque in questo Stato che la misura l'ha perduta totalmente a ogni
piano del Palazzo; fino a offrirci lo spettacolo inverecondo di un governo che
mette la fiducia in parlamento sulla villa abusiva del primo ministro. La
misura che è mancata nell'affrontare il caso Brusca. La misura che, rieccoci,
manca nuovamente dopo l'assoluzione in Cassazione di Giulio Andreotti.
Un'assoluzione che – come ripetono i magistrati che hanno sostenuto l'accusa –
ha confermato i reati commessi fino al 1980 e poi prescritti. Un'assoluzione,
soprattutto, che ha confermato i fatti che portarono a suo tempo al rinvio a
giudizio del senatore a vita per concorso esterno in associazione mafiosa. Di
quei fatti, per diversi aspetti, è stata mutata la qualificazione giuridica:
non furono reati, si dice. Epperò vi furono. Con certezza: vi furono.
Diversamente dal processo Tortora, in cui proprio i fatti si dimostrarono
inesistenti, sì da restituire l'imputato alla sua innocenza civile. No; qui vi
furono. E allora che senso hanno le vive felicitazioni e i fervidi complimenti
di politici in gara tra loro? Che senso ha rallegrarsi con il potente che,
senza commettere reati, ha speculato sui voti mafiosi, ha ricevuto e offerto
aiuti ai mafiosi, si è incontrato con i mafiosi? Che senso ha elogiarlo,
additarlo come esempio ai cittadini? Certo Andreotti si è assoggettato al suo
processo in una Repubblica in cui ormai si evitano i processi facendo le leggi
ad personam. Ma questo, appunto, conferma che è proprio la misura che ci sta
lasciando. Manca la misura perché la misura è colma. Ora ne occorre una di
ricambio.
mcmellon
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