Razzismo padano

L'Unità
Il sangue padano. Il dibattito sulla sicurezza e sulla lotta alla
criminalità ha registrato l'ingresso dirompente di questa nuova categoria
giuridica, ma soprattutto etico-politica. Non c'è proprio da scherzare sul
sangue padano. La prima ragione è che esso è stato effettivamente versato da un
benzinaio perbene, ucciso come troppi suoi colleghi – padani o no, comunque
italiani – nel corso dell'ennesima rapina realizzata mentre si propagandava il
nuovo ordine della destra.

La seconda ragione è il modo serio e
sconvolgente con cui il ministro Roberto Calderoli lo ha evocato, indirettamente
ma chiaramente dopo la notizia del delitto: «Nessuno può permettersi di toccare
un padano», ha sentenziato incollerito. Che significa: il sangue padano come
sangue superiore, che chiama e impone una reazione più alta e più dura da parte
dello Stato o di una forza di governo. Vorrei essere chiaro e anche – davanti a
un episodio drammatico – comprensivo quanto è giusto. Perché si capiscono le
affinità culturali. Si capiscono le solidarietà che nascono dal fatto di vivere
nella stessa terra (anche se in genere queste solidarietà sono vere e
autentiche quando si formano in un medesimo paese, vivendo tra le stesse
montagne, sullo stesso fiume, non in una stessa grande regione). Ma questo può
avere riflessi affettivi nella sfera più strettamente privata di ciascuno di
noi. Certo non può travasarsi nella sfera pubblica. E in effetti: che cosa
avremmo detto di un ministro calabrese che di fronte all'omicidio di un
tabaccaio di Crotone o di Amantea avesse proclamato pubblicamente che «un
calabrese non può essere toccato impunemente?». Minimo minimo sarebbe già stato
sottoposto a una crocifissione mediatica in quanto portatore di una visione
clanica e tribale della vita e del mondo.

La questione della taglia, su cui si
sono diffusi i (più facili) commenti resi a caldo sulle frasi del ministro,
rischia di fare passare in second'ordine un concetto che ha invece una sua
oggettiva e nuova dirompenza. E che va al di là del dibattito sulla pena di
morte e sulla giustizia fai-da-te delle camicie verdi. Qui, potrà sembrare
impossibile, siamo andati ben oltre. Perché un ministro può avere le sue
visioni forcaiole o garantiste della giustizia. Ma chi rappresenta il popolo
italiano non può, proprio non può, assegnare un valore diverso alla vita dei
cittadini che lo compongono. Può forse provare sentimenti di maggiore vicinanza
verso alcune categorie più deboli: un bambino, un anziano, un portatore di
handicap. Provare una indignazione maggiore, un dolore più alto, se le persone
colpite dalla violenza sono portatrici di valori superiori o cruciali, un
missionario, un reporter di guerra, un poliziotto in una zona di trincea. Ma
anche in tali casi deve trovare il modo più rispettoso per rendere all'esterno
questa maggiore lacerazione interiore, spiegando che è proprio la qualità dei
valori colpiti in quella specifica persona (ossia valori che sono di tutti) che
lo fa reagire più intensamente e duramente.

Ma se un ministro che ha giurato
fedeltà alla Repubblica e dunque si è responsabilmente accollato l'impegno di
rappresentarla nella sua interezza, divide i cittadini in padani e non-padani,
riconoscendo, in funzione di questa divisione, un valore differente alla loro
vita, il patto costituzionale si rompe. E a quel punto i cittadini non-padani,
hanno il diritto pieno (proprio formalmente) di non considerarlo più il loro
ministro, di non dovergli lealtà e obbedienza. Conoscendo Roberto Calderoli,
che ha comunque il pregio della schiettezza, sono certo che egli risponderebbe
a questa obiezione che in effetti a lui interessa rappresentare i padani e non
altri, e che il suo partito si chiama mica per altro «per l'indipendenza della
Padania»; ossia che, quanto a natura e finalità, il suo partito non potrebbe
essere più chiaro ed esplicito. E, nella sua perversa logica, avrebbe ragione.

Il problema è di altri. È di chi ha
imbarcato la Lega al governo e anzi le ha messo in mano più volte le sorti del
governo. Il guaio è che per troppo tempo, di fronte al linguaggio della Lega,
si è detto, alzando le spalle, che «si sa com'è fatto Bossi», che «si sa com'è
colorito il linguaggio leghista». Ebbene, proprio questo pigro, pilatesco «si
sa com'è», questa formula di falsa tolleranza bonaria, è diventato lo strumento
complice per consolidare nella cultura e nel senso comune del ceto politico e
anche di una larga fetta dell'opinione pubblica modi di dire e di pensare che
in realtà finiscono per essere pietre. Pietre tirate contro l'abitudine (a
volte anche ipocrita, ma non per ciò meno necessaria) di osservare un minimo di
rispetto per ogni persona, compreso l'avversario o il clandestino. Pietre
tirate contro le istituzioni e il loro fondamento storico e morale. Forse,
viene a volte da scommettere, vi è stato in alcuni un calcolo astuto. Quello di
mandare avanti i "villani" (quelli che «si sa come mangiano») perché facessero
il lavoro sporco – lo scardinamento delle istituzioni – che altri non si
sentono ufficialmente di fare. Ma ora un passo senza ritorno è stato compiuto.
E dunque c'è qualcuno – il capo del governo, il ministro dell'Interno – che
deve rispondere a questa domanda precisa: è compatibile con l'unità della
Repubblica il fatto che la vita dei cittadini italiani, il loro diritto alla
sicurezza, valga più o meno in relazione alla loro origine geografica, al loro
"ceppo etnico" di provenienza?

Qui è come se stesse crollando
tutto, pezzo dopo pezzo, del nostro edificio costituzionale. Vadano, vadano
pure indietro, i teorici della normalità democratica, rivanghino frasi e gaffe.
Si industrino di trovare antenati e colpe nell'Ulivo. E ci dicano se esiste il
precedente di un partito di governo che usi questo linguaggio. E che lo usi
proprio mentre si invoca (o si legittima moralmente) una giustizia regolata in
proprio. Strano, singolare, perfino pazzesco lo scenario che ci si distende
d'innanzi. Si fa un nuovo ordinamento giudiziario che rallenta il corso della
giustizia, si abbreviano i tempi delle prescrizioni, si aumenta il livello
delle pene per le quali si può patteggiare, e al tempo stesso si chiede la mano
dura, la lotta alle "scarcerazioni facili" a delitto caldo (salvo condurre la
lotta alle "condanne facili" a delitto freddo, quando la gente è voltata
dall'altra parte e le vittime sono ormai dimenticate da tutti). Uno scenario
che ruota intorno non a principi uniformi e coerenti. Ma a principi volubili
come l'identità delle vittime e dei fuorilegge, in un relativismo etico e
giuridico che potrebbe fare impazzire anche l'opinione pubblica più matura. Il
varco che si è aperto con le rogatorie, con il falso in bilancio e con la
Cirami sta diventando prateria. In quelle occasioni si sancì che la legge non è
uguale per tutti. Che è disuguale in ragione del potere o dei soldi. Ora
sappiamo che è così anche in ragione del sangue e del suolo. La giustizia
"amministrata in nome del popolo" più volte invocata per i tribunali
dal ministro Castelli in alternativa alla «legge uguale per tutti» diventa
insomma semplicemente una giustizia senza diritto. Che dà ragione agli umori
del "popolo", meglio, a quella frazione di popolo, che di volta in volta riesce
a farsi sentire come tale: la maggioranza elettorale, il ceto
politico-affaristico di governo con i suoi giornali e le sue tivù, la piazza
leghista. Ecco dove finisce la parabola di un decennio di furibondo e
allucinato garantismo.

La taglia sul "vivo o morto" che
tanto ha sorpreso i commentatori esprime, in fondo, un'idea di giustizia che si
radica negli anni che abbiamo così intensamente vissuto. Tolleranza zero e
tolleranza cento. Giustizia western e giustizia da azzeccagarbugli. Tutte
insieme. "A seconda che". Ma la schizofrenia della giustizia è schizofrenia di
una classe di governo. Fedele per giuramento alla Costituzione e sovversiva
come mai nessuna prima. Per fortuna che ogni tanto c'è la schiettezza di un
leghista a ricordarcelo. Se no, a volte, verrebbe da pensare che ci stiamo
abituando.

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