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Parole e politica: «mercenari» si può dire
L'Unità
– Hai sentito che cosa ha detto Prodi? Ma ti pare il caso di parlare di
mercenari? Mica una sola telefonata ho ricevuto. E nemmeno due. E tutte (per restare
in tema) assolutamente «volontarie». Replicherò dunque con un apologo
neorealista. Lui si chiamava Gianni ed era un autista d'autobus in pensione.
Lei, sua moglie, si chiamava Anna e aveva un'ammirazione appassionata per la
gente che rischia per le nobili cause. Si commosse e si sentì importante una
volta che le passai al telefono Antonino Caponnetto. Tutti e due, credo, erano
iscritti ai Ds.
Mi accompagnarono in lungo e in
largo tutti i giorni della campagna elettorale nelle politiche del 2001.
Su e giù con un furgone per le vie
del centro di Genova e per la Val Bisagno. Non furono i soli a darsi da fare
per me. Si mossero a decine e decine i militanti dell'Ulivo. Tutti i giorni,
ciascuno nelle ore che poteva. Ero il loro candidato; un candidato non locale,
fra l'altro, ma – così mi parve – ugualmente gradito per il suo prolungato
impegno su alcuni temi che molti di loro consideravano cruciali per la
democrazia. Alla fine di un mese e mezzo di campagna elettorale cercai di
sdebitarmi moralmente per quell'aiuto che, certo, era stato prodigato con tanta
generosità per fare vincere l'Ulivo; ma che aveva coinvolto e costruito (e come
sarebbe potuto essere diversamente?) relazioni umane profonde. Regalai a quasi
tutti i nuovi amici trovati sul campo copie dei miei libri. A Gianni e Anna,
che si erano dedicati a me tutti i giorni dall'alba fino a notte, mi sembrò
giusto consegnare una busta, per così dire, di rimborso spese. C'era dentro un
assegno di un milione. Una cifra simbolica, di fronte a un mese di lavoro in
due. Non volevo insomma che lo intendessero come un vero pagamento. Lo
rifiutarono lo stesso. Non ne vollero sapere. Lo abbiamo fatto per ideali, mi
risposero. Vollero, questo sì, dei libri con una dedica calorosa. Poi non mi
chiesero mai un favore. Non cercarono di far valere il loro aiuto per dare
origine ad alcuna clientela. Li ho riincontrati spesso. E lo scorso giovedì
sera, durante una manifestazione sulla Finanziaria, proprio mentre Berlusconi
lanciava l'idea dei suoi Mille, si sono candidati a ripetere la loro fatica nel
2006.
Ho ripensato a questo groviglio di
rapporti, di impegni, di affetti che si formano nell'azione politica. Ci ho
ripensato appunto leggendo la polemica scoppiata dopo l'annuncio dei mille
professionisti azzurri e l'icastica risposta di Prodi sui "mercenari" e sui
"volontari". Ha sbagliato Prodi? Ha superato il limite del "civile confronto"?
Ha fatto un autogol clamoroso, come da più parti si recita? Lasciamo perdere i
limiti del civile confronto, che non si sa chi possa più invocare, visti i
silenzi prudenti con cui si accolgono accuse ben più sanguinose di quella
prodiana. La polemica invece, quella, non va fatta per nulla cadere. Piuttosto
va sviscerata. Per capire che cosa si può ancora dire in questa temperie
politica. Qual è il galateo e chi lo stabilisce. E siccome credo che il
centrosinistra non debba perdere un grammo della propria intelligenza e della
propria libertà di espressione (visto per di più che gli spazi di libertà si
restringono ogni giorno di qualche centimetro), vale la pena ripartire
dall'etimologia. Dice il Devoto Oli, a proposito della parola mercenario: «Di
chi svolge un'attività al solo scopo di trarne un guadagno». E aggiunge che
sono truppe o soldati mercenari quelli «reclutati con contratto per fare la
guerra». Specificando che anche una balia può essere mercenaria, nel senso che
allatta a pagamento, non per amore. Ma resta inteso che sia la balia sia il
soldato possono fare a pagamento cose in cui in certa misura si riconoscono.
Che la balia può amare il bimbo che allatta per mestiere. Che il soldato può
ammirare il signore che lo paga e sotto le cui bandiere egli si batte.
Questo è il dizionario. Se poi si
volesse andare più a fondo e sottilizzare, si potrebbe rilevare che mercenario
e soldato hanno in fondo radici uguali: mercede e soldo. Il tempo fa e disfa
lentamente le parole, come sappiamo. Ma gli umori, le reattività, gli spiriti e
le faziosità, vanno oltre. A comando trasfigurano quei termini che hanno una
loro semplicità e potenza descrittiva. E' curiosa la politica. Da un lato
inventa parole vacue e untuose per diplomatizzare e stemperare la dialettica
delle idee, preoccupata nevroticamente di ogni forma di dissenso. Dall'altro
conia insulti e accuse che non stanno né in cielo né in terra tanta ne è
l'intenzionale violenza. Sicché, oscillando senza tregua tra questi due
estremi, bandisce dal suo lessico le parole chiare e cristalline. Anche per
questo essa è lontana dalla gente. Perché rifiuta di parlarne la lingua
quotidiana. Quella della gente comune, non della gente da trivio (che invece
ogni tanto adotta disinvoltamente).
Berlusconi arruola con regolare
contratto mille giovani per la sua «guerra» (parola da lui pronunciata
centinaia di volte) contro «la sinistra»? È il tipico caso del Devoto Oli.
Bisognerebbe parlare di professionisti, che suonerebbe meglio? Ma qui non di
professionisti si tratterebbe. Non si parla infatti di pubblicitari, di addetti
stampa, di sondaggisti, che per una campagna elettorale prestano la loro opera
al servizio di una parte politica. Ma di persone che svolgerebbero un'attività
di propaganda a pagamento, che ora non svolgono. Tant'è che sarebbero
selezionate non tra quelle che già ora fanno politica per Berlusconi
gratuitamente. Ma – si è detto – sul mercato (giusto?), attraverso una adeguata
attività di selezione svolta da appositi e premiati cercatori di talenti. E
dietro promessa di una mercede. Nulla di vergognoso, per chi impara ad avere
una visione laica della vita e della politica. Ma il cui contrario, nel
prezioso «Dizionario dei sinonimi e dei contrari» di quasi mezzo secolo fa
(edizione speciale, udite udite, per l'Arma dei Carabinieri), si chiama,
alternativamente, «gratuito», «volontario», «disinteressato».
Devo dire la verità. Fa un po'
specie vedere che chi ha fatto del denaro la propria religione, chi ne ha fatto
il metro supremo per misurare capacità e qualità delle persone (ricordate il
celebre episodio del premier con il ragazzino milanese che gli diceva che il
suo papà, diversamente da lui, non poteva mangiare al Savini? «Si vede che non
ha lavorato come me», gli rispose) provi poi vergogna o risvegli i suoi furori
se gli si osserva che progetta di acquistare con il denaro la altrui
disponibilità al lavoro politico.
E fa un po' specie anche sentire
evocare, in questo caso, il professionismo politico. Il quale è tutt'altra cosa
e si trova, come è noto, sotto tutte le bandiere. Sono professionisti della
politica coloro che vivono di politica (in modo più o meno definitivo) grazie a
un'attività istituzionale. E lo sono anche coloro che vengono pagati dai
partiti per svolgere le loro mansioni. I quali però – lo si ricordi – non
vengono reclutati con un'offerta pubblica sul mercato. Ma in genere ricevono
un'offerta di collaborazione dopo un tirocinio fatto in modo assolutamente
volontario presso il partito che meglio incarna i loro ideali. Arrivano cioè al
professionismo per un cumulo di circostanze, ma avendo all'origine una scelta
di "gratuità". Che si manifesta, a scanso di equivoci, tanto a destra (specie
nella Lega e in Alleanza nazionale) quanto a sinistra.
Ogni tanto la politica ha le sue
pretese semantiche. Una volta pretese che non si potesse parlare di «lotta alla
mafia». Che non potessero usare quell'espressione esecranda né i magistrati, né
gli intellettuali, né gli insegnanti, né i preti, né i giornalisti. A cicli
alterni mette al bando il termine «società civile», che pure ha radici dense e
ben motivate da Hobbes a Gramsci. Sembrano pretese stravaganti, ma dietro
queste ambizioni censorie ci sono sempre nervi scoperti, nitide esigenze di
potere. Perciò cedere a queste pretese non è un fatto semantico. È un fatto
civile e politico. Sull'opportunità di una parola si può discutere
all'infinito. Sul suo fondamento logico ed etimologico no. Pena la perdita di
un po' di libertà. Di espressione e d'opinione.
mcmellon
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