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Salva-Previti – Distruggi-Italia
L'Unità
– Ora vorrei le scuse. Dalla presidenza del Senato. Ma anche da quelli che
nel centrosinistra la definirono una goliardata. A che cosa alludo? Alla
proposta di legge che illustrai più di due anni fa su queste colonne: che dieci
persone scelte a insindacabile giudizio del capo del governo venissero
sottratte all'azione penale sul territorio della Repubblica.
Il titolo era, significativamente, «Disposizioni
per il contrasto della criminalità organizzata». Una provocazione che nasceva
dall'osservazione di ciò che stava accadendo in parlamento e dalla previsione
di ciò che sarebbe poi accaduto senza sosta. Una legge di favore dopo l'altra,
la maggioranza stava smantellando l'ordinamento del Paese, sacrificando non
solo il principio che la legge sia uguale per tutti ma anche l'interesse
generale all'interesse particolare. Per salvare un pugno di imputati (o
possibili tali) giunti democraticamente ai vertici dello Stato, tutto, ogni
valore, anche il più intangibile, veniva piegato, travolto e calpestato. I
numeri parlamentari, le discipline e dipendenze di partito, il controllo
operato sui media, consentivano di concepire e realizzare una legislazione devastante.
Tre i danni incalcolabili. Primo:
l'abbattimento di fondamentali principi costituzionali, tra cui -non ultimo-
quello richiamato in questi giorni da Ciampi della natura democratica del
procedimento legislativo. Secondo: la privatizzazione del Parlamento, la sua
trasformazione in appendice degli studi professionali degli avvocati difensori.
Terzo (ed era soprattutto questo all'origine della proposta e del suo titolo):
l'estensione a migliaia e migliaia di criminali, corruttori, fuorilegge di ogni
ordine e rango dei benefici pensati per poche persone (per potere affermare,
secondo il salmo del senatore Schifani, che «queste leggi non sono ad personam,
valgono per tutti»). A questi tre danni incalcolabili sul piano istituzionale,
dell'etica pubblica e del costume politico, se ne aggiungeva un quarto, forse
meno incalcolabile: la permanente sottrazione di energie, tempo, impegno e
denaro alle riforme più urgenti e alla soluzione dei problemi della
collettività.
Oggi la cosiddetta legge
"salvapreviti" ci ripropone drammaticamente il problema. Tanto più che essa
appare la prima di una nuova batteria di norme di favore, tra cui svettano
l'abolizione del concorso esterno in associazione mafiosa e il ripristino
dell'immunità parlamentare. Al tempo in cui la mia proposta di legge fu
presentata, la presidenza del Senato la dichiarò inammissibile. È
incostituzionale, venne detto. Radicalmente contro la Costituzione: tanto da
essere addirittura irricevibile, da non potere nemmeno avviare il procedimento
legislativo; non si dice di arrivare in aula, o alla firma di Ciampi, o perfino
all'esame della Corte costituzionale. Contro la Costituzione perché assicurava
l'impunità penale a dieci persone indicate dal capo del governo. In realtà il
sistema istituzionale già lanciato verso il baratro venne, con quella proposta
di legge, messo di fronte alle proprie responsabilità. E preferì svicolarle con
qualche indignazione. E in effetti: che cosa si è fatto dopo, se non leggi in
serie proprio per ottenere quell'obiettivo di impunità selettiva e nominativa?
E dunque se l'impunità teorizzata per legge, accordata cioè attraverso una sola
legge semplice e chiara (e dagli effetti limitati), era anticostituzionale,
come può non essere anticostituzionale tutto ciò che è accaduto, l'impunità
conseguita attraverso più leggi tra loro concatenate, volte o a impedire i
processi, o a congelarli, o ad abolire i reati, o ad annullare le pene per quel
gruppo di persone? Questa è la vera, enorme verità: ciò che era stato giudicato
d'istinto inammissibile, repellente, è diventato invece pienamente ammissibile,
e con costi moltiplicati. E' diventato vita parlamentare. Sangue di una
democrazia sempre più esangue.
L'attacco alla giustizia e l'attacco
alla Costituzione si sono sempre più organicamente intrecciati; non per nulla
la prima volta che in aula venne invocato il rispetto dell'articolo 72 della
Carta – quello sul procedimento di formazione e votazione delle leggi – fu
proprio in occasione della Cirami. In tal senso suona improprio il paragone con
il fascismo che ogni tanto torna a spirare. Qui infatti non abbiamo gli agrari
o gli industriali che, a partire dai loro interessi, vogliono sopprimere le
libertà politiche e sindacali per schiacciare masse contadine e operaie
infatuate del verbo della rivoluzione bolscevica. Abbiamo invece degli imputati
alla testa del maggiore partito di governo che vogliono fermare i magistrati. I
giudici, non la classe operaia delle fabbriche torinesi, sono il loro nemico
mortale. E su questa intenzione essi – gli imputati – hanno coalizzato vasti
interessi, mescolandoli con domande politiche eterogenee, anche di rinnovamento
del paese. Coerentemente con questa intenzione colpiscono Costituzione e
parlamento, usano i media come in un'anticamera di regime, cercano furentemente
di realizzare il "bottino" (tutto il bottino possibile) in questa legislatura,
prima che sia troppo tardi. E all'interno di tale strategia ridisegnano la
Costituzione nell'unico modo che gli interessa: rimuovendo scientificamente
tutti gli ostacoli incontrati sulla via del libero e rapido esercizio della
dittatura della maggioranza. Finiscono dunque nel mirino (con l'aggravante
della devolution come merce di scambio con la Lega) i poteri del presidente
della Repubblica, il bicameralismo, la natura della Corte costituzionale, i
poteri del Csm, l'indipendenza della magistratura. Anzi, su questi ultimi temi
si è ricorsi a una specie di guerra preventiva, alla legge ordinaria, quella
sulla riforma dell'ordinamento giudiziario. Così che per la prima volta è
finita sotto tiro degli organi di garanzia non la "semplice" incostituzionalità
della norma, ma il fatto che la norma integrasse (in sé) un vero e proprio
attacco alla Costituzione.
Qui stiamo. E la spallata tenderà a
farsi più forte. E al centro dello scontro finirà, dopo i magistrati, dopo il
Csm, dopo la Corte costituzionale, il massimo organo di garanzia della
Repubblica, il suo Presidente. Ecco perché credo che l'appello de l'Unità a una
mobilitazione straordinaria debba essere raccolto e meditato e interpretato
nella forma più adeguata alla novità e alla gravità dei tempi. Anche se devo
essere sincero. Temo che l'appello a una seconda San Giovanni possa generare
per passaggi inconsci e automatismi mentali una sorta di "déjà vu" un remake ingiallito
(anche estetico, lessicale) di quella che fu una formidabile manifestazione di
popolo, convocata sull'onda di una sacrosanta e incoercibile "indignazione",
per usare il termine di moda allora. Non può esserlo. Non deve esserlo. Ora la
situazione è cambiata. Non so nemmeno se il riferimento allo stesso luogo
fisico del 2002 aiuti a pensare a un altro genere di mobilitazione, adeguato
alla situazione. Occorrerebbe pensare a una mobilitazione con tempi e modi
differenziati. Capace prima di coinvolgere in forme simboliche e partecipate le
piazze su cui sorgono tutti i municipi d'Italia, per irrobustire le radici
locali del movimento. Poi di sfociare a Roma, al culmine di una immensa marcia
di democrazia, per affermare – come mai è stato forse necessario fare nel
dopoguerra – che la Costituzione non si tocca; non nei suoi singoli articoli ma
nel suo spirito profondamente democratico, che ancora profuma di libertà
riconquistata. Per proporre definitivamente il caso italiano all'attenzione
dell'opinione pubblica internazionale e indicarne l'essenza patologica al mondo
occidentale perché sia di insegnamento per tutti. E per prima cosa occorre che
quando la legge salvapreviti giungerà in Senato il livello di attenzione di
tutti (anche dei partiti e dei gruppi parlamentari) sia più alto rispetto a
quello che, anche a causa dei blitz procedurali della maggioranza, si è
manifestato alla Camera. Da ora nessuna distrazione è più possibile.
mcmellon
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