Un lupo nell’ovile

L’Unità – Vent’anni fa era Avellino. Poi fu Sassari. E poi furono Varese e Milano. Quindi Torino. E di nuovo Milano. Ora Bologna. Ferma restando la suprema competenza di Roma, le capitali delle poltrone e degli onori di Stato cambiano con la geografia del potere politico. Per questo, solo per questo, un signore con la quinta elementare, di mestiere macellaio, purché bolognese, può diventare commissario dell’Antitrust. D’accordo, il signore in questione è stato sindaco di Bologna. E a buon diritto. Perché il sindaco, visto che se lo scelgono gli elettori, può avere qualsiasi titolo di studio. Anzi. Abbiamo avuto persone dagli studi modesti dotate di grande buon senso e lungimiranza alla guida di amministrazioni locali. Persone umili e giustamente orgogliose dei loro natali. Averne, piuttosto che quegli alti dirigenti Rai che taroccano i loro curriculum inventandosi master inesistenti alla Bocconi. Ma qui si parla d’altro. Qui si parla di cariche per le quali occorrono competenze e risorse professionali specifiche, perché da esse dipende lo svolgimento del delicatissimo ruolo di garanti al servizio del Paese. Dove occorre chi sappia, e molto -e assai più della media degli operatori qualificati- di mercati finanziari, di conglomerate e di quote di mercato, di intrecci e scatole cinesi, di parentele di Borsa. Di più. Chi sappia prevedere le implicazioni di scelte e concessioni, di autorizzazioni e di scalate, anche sulla base delle nuove, sofisticate ingegnerie societarie. Questo ci vuole lì in quel luogo a presidiare i tratti essenziali di una economia di mercato, la famosa economia libera e concorrenziale. O, volendoci esprimere con una terminologia più vicina alla nostra Costituzione (articolo 41), una società in cui la proprietà privata non svolga una funzione antisociale.Per questo è scandalo, ma scandalo autentico, che Guido Guazzaloca sia stato proiettato ai vertici dell’Antitrust. Perché il deficit di competenze specifiche e altissime che lo indica oggi a dito può essere stato giudicato irrilevante dai presidenti delle Camere solo sulla scorta di una decisione strettamente e mediocremente politica. La quale a sua volta, però, raddoppia, ingigantisce lo scandalo. Perché vuol dire che anche l’altro requisito essenziale per accedere all’incarico, ossia l’assoluta e conclamata indipendenza, non esiste. Muore in radice. Non è infatti l’essere stato sindaco di Bologna la prova del nove della «lealtà politica», se è vero che ogni tanto si incontrano persone con forte passione politica che sanno dire di no ai potenti in nome di valori universali. La prova del nove sta invece proprio nell’abisso oggettivo tra i requisiti tassativamente proposti dalla legge e i requisiti posseduti.Lo scandalo poi si ingigantisce ulteriormente se si prende in considerazione la seconda persona inviata, come in un pacchetto di mischia concordato, ad affiancare Guazzaloca nell’avventura. Antonio Pilati, si chiama, e ha una biografia tutta marcata Mediaset, con un gioiello super da esibire. Avere scritto la legge Gasparri stando in un’altra Authority complementare: quella alle telecomunicazioni, dalla quale, almeno per questioni estetiche e di buon gusto, sarebbe assai meglio uscire senza chiedere o ricevere altre pubbliche poltrone. Romano Prodi ha parlato di un vulnus per la democrazia. L’espressione è sembrata forte, ma acquista un senso preciso e incontrovertibile se la scelta viene collocata nell’attuale, e ben specifico, quadro istituzionale-costituzionale. Facciamo dunque un salto indietro. E chiediamoci: perché sono nate le Autorità indipendenti? E perché la loro nomina è stata affidata proprio ai presidenti delle Camere? La risposta sta nella loro funzione. Nel tempo, e con lo svilupparsi della cosiddetta società complessa, ci si è resi conto che vi erano gangli vitali della vita democratica che abbisognavano di una protezione operativa, funzionante in tempo reale, e non di difese tardive e inutili attraverso leggi-fotografia (ricordate la Mammì che ratificò lo scenario western delle tivù berlusconiane?). Vi erano cioè valori costituzionali, dalla libertà piena d’informazione al mercato, più altri valori di successiva formazione (ad esempio la privacy), che andavano tutelati al di sopra degli interessi politici contingenti e sulle quali le autorità di garanzia previste costituzionalmente non erano in grado di agire efficacemente. E così, anche sull’onda di importanti esperienze straniere, venne introdotta questa creatura un po’ strana ma per noi, paese-jungla di furbi e di clienti, almeno in potenza straordinariamente salutare.Per essere davvero super partes, ogni membro delle Autorità doveva ricevere un imprimatur sulla base di due criteri spesso e assurdamente messi in alternativa dalla antropologia politica della Prima Repubblica: la competenza e la moralità-indipendenza. Perciò la scelta dei membri venne congiuntamente affidata alla seconda e alla terza carica dello Stato, in un’epoca in cui vigeva la consuetudine che una delle due fosse espressione della maggioranza e l’altra dell’opposizione e in cui il parlamento non era stato ancora militarizzato al servizio di interessi personali, economici e giudiziari. Le Autorithies crebbero di numero. Anche troppo. Tanto da fare pensare che proliferassero anch’esse in una logica di sottogoverno. E da confiscare di fatto una quota crescente (e non sempre giustificata) di potere al parlamento. Ma con il mutare degli eventi politici, ossia con l’arrivo dell’era Berlusconi, due di esse soprattutto hanno acquistato una centralità inimmaginabile: l’Antitrust, appunto, e le Telecomunicazioni. Ossia quelle deputate a regolare il conflitto d’interesse. Per dirla in una battuta: sono queste le Autorità «del premier», quelle chiamate a vigilare in nome degli italiani e della Costituzione sulla sua insopprimibile tentazione a rompere argini e a costruirsi situazioni di fatto non più rimovibili, se non con provvedimenti descritti ogni volta come attentati alla sua libertà di imprenditore o alla sua leadership politica.Se democrazia è complesso di contrappesi, è regole, è costruzione e sorveglianza dei limiti al potere; se (anche) questo è insomma la democrazia liberale, sguarnire quei due fronti come è stato fatto, significa indebolirla, lasciare due territori comunicanti e decisivi (viviamo o no nella «società dell’informazione»?) alla mercé del più forte. Significa che da oggi c’è meno democrazia e c’è più jungla. Tanto più che uno dei due nominati, il Pilati suddetto, ha partorito – lo vogliamo ricordare? – una legge che il presidente della Repubblica ha rinviato al Parlamento per palese incostituzionalità; e dunque giunge a quella postazione avendo già dato un mirabile saggio della sua capacità di tutelare i principi universali dai desideri del potere politico.Il momento è effettivamente grave, specie visti gli attacchi a Ciampi, garanzia delle garanzie, ascoltati in Senato e su cui si continua curiosamente a tacere. Perché è come se a questo passaggio della vita istituzionale, ai due presidenti delle Camere qualcuno avesse detto: «Qui si parrà la vostra nobilitate». Ed essi, purtroppo, l’hanno mostrata.

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