Il Governatore degli abusi

L’unità – C’è qualcosa di globale, di sistemico, nella particolarissima vicenda degli hacker che si sarebbero avventurati contromano per le autostrade informatiche della pubblica amministrazione laziale. C’è il degrado dell’etica istituzionale, la perdita dei limiti che nascono dagli obblighi di ruolo, una micidiale commistione tra pubblico e privato che si è fatta largo sgomitando in questi anni nei quali la domanda “che male c’è?” riferita ai comportamenti più spregiudicati o facinorosi si è fatta via via irriverente, baldanzosa e infine minacciosa.Ma pensiamoci. Un’azienda, una grande azienda del terziario avanzato, come ce l’hanno dipinta i giornali, un’azienda che svolge un ruolo delicatissimo come quello di acquisire e trattare valanghe di informazioni personali su un’intera regione, un’azienda creata anzi a tale scopo dall’ente pubblico, è amministrata dallo zio di un assessore regionale, che professa la stessa fede politica del nipote, che è poi la stessa fede del presidente di quella regione. Dice: che male c’è? Interrogativo al quale si è tentati di rispondere con le domande più ovvie del profano: come è nata Laziomatica? Chi e come ha reclutato i suoi quadri dirigenti? Come è arrivato ai vertici lo zio dell’assessore (guarda caso: al personale e all’informatica)? Sarà stato tutto corretto, non c’è alcun dubbio. Ma una famiglia politica non può assegnarsi, neanche con i metodi formalmente più ineccepibili, il monopolio di un’attività di servizi regionale. E tanto meno può farlo in quei settori – e tale è l’informazione che tocca la privacy dei cittadini – che si situano al cuore delle relazioni civili e amministrative. Non c’è qualcuno in grado di spiegarlo efficacemente agli uomini del potere laziale? Davvero non c’è un segretario politico, un leader di partito, un fidato consigliere, capace di soffiare nell’orecchio del governatore qualche robusto dubbio? Non c’è qualcuno capace di evocargli i concetti di opportunità, di decenza, di divisione dei poteri, di regole della democrazia?Il sistema soffre sempre più di questa vergognosa commistione di pubblico e privato, di gente di partito che fa nascere sue imprese, che arricchisce parenti imprenditori o trasforma in imprenditori mogli, figli e fratelli e zii. E li piazza intorno a istituzioni locali o nazionali, alla Rai o altre pregiate aziende industriali e terziarie. Enti con presidenti e amministratori rigorosamente di nomina pubblica, ma che naturalmente si atteggiano a ad aziende private, e che in quanto tali sfuggono – benché parte del sistema di potere pubblico – a ogni controllo delle assemblee elettive, parlamento compreso. Questo è il primo, vero scandalo della vicenda di Laziomatica, di questa società per azioni nata dal grembo del potere politico. E spiace vedere che venga tanto sottovalutato. Poiché in realtà esso è la premessa indispensabile, organica, del secondo scandalo; quello che ha suscitato – giustamente – un allarme che riguarda l’idea stessa di democrazia, da sempre estranea a ogni scenario da Grande Fratello. Il Garante della Privacy, il professore Stefano Rodotà, ha appena concluso il suo mandato consegnando alle massime autorità istituzionali, presidente della Repubblica in testa, le sue pubbliche riflessioni su uno scenario preoccupante proprio per la quantità di informazioni che, per molte e incontrollabili vie, il sistema è messo oggi in condizione di assumere, padroneggiare e fare impropriamente circolare e usare. Ebbene, a distanza di poche settimane da quella preoccupata analisi, dal Lazio veniamo a sapere che per ragioni privatissime, di pura competizione elettorale, una società per azioni, dotata di un incarico in pubblico servizio, può compiere incursioni in un sistema informatico pubblico, frugare, scrutare, visitare clandestinamente, prendere quanto serve e poi pensare di farla franca.Siamo indubbiamente un paese curioso. Un paese in cui, per intenderci, è stato perfino negato a un giornalista l’accesso a un centro di permanenza temporanea con la motivazione di volere “tutelare la privacy” degli immigrati ospiti. Ma in cui non si ha nessuno scrupolo a mettere a soqquadro la privacy di migliaia di persone inconsapevoli per ragioni puramente elettorali. Non c’è che dire, quello che è esploso a Roma ha tutti i contorni di un caso di spionaggio politico, naturalmente calibrato e modellato sulle risorse tecnologiche rese disponibili dai tempi. Ma spionaggio politico è. Anzi, è oggettivamente spionaggio istituzionale. E per questo colpisce chi pensa che alle istituzioni i cittadini possano rivolgersi con la fiducia di esserne aiutati, rispettati e perfino protetti dagli abusi dei privati.Questo, sia ben chiaro, non assolve altri dalle loro colpe. Nulla toglie cioè alla gravità dell’usanza di comporre false liste di sostenitori per presentarsi truffaldinamente alle elezioni. Stavolta la vicenda ha avuto un clamore sconosciuto per via dello scontro – che è inequivocabilmente scontro politico nazionale – tra Storace e la Mussolini. Ma sono infiniti i casi in cui le autorità competenti chiudono un occhio, evitando di compiere controlli a campione sulle firme e sulla congruenza tra le generalità dei firmatari e gli estremi delle relative carte d’identità. Alle elezioni comunali milanesi, ad esempio, il sottoscritto ha dovuto più volte denunciare piccole liste, liste di candidati sindaci sconosciuti, che sventolavano fogli di firme raccolte chissà come e chissà dove. Per non parlare di referendum che si sono tenuti sull’onda del lavorio di un gazebo a Roma e di un gazebo a Milano e poco più. O di elenchi che vengono fotocopiati per conservarli e riusarli fraudolentemente per nuovi referendum o nuove competizioni. O di scrutini per le elezioni circoscrizionali che a Roma durano una settimana, peggio che in Iraq. O di presidenti di seggio che curiosamente vengono scelti più volte di fila, sempre loro, ma che fortuna. Il caso Mussolini è grave. Il caso Storace è, istituzionalmente, molto più grave. Ma anche se non ce ne vogliamo dare per vinti, il fatto è che le nostre pratiche democratiche non stanno troppo bene. Non sono i brogli dei comunisti che vede Berlusconi quando perde. Ma c’è un’opacità, un senso di impunità, che appesantisce il fiato alla nostra democrazia. Che rende inaccessibile ciò che dovrebbe essere del tutto trasparente. E rende del tutto trasparente ciò che dovrebbe essere inaccessibile. Come i dati dell’anagrafe di Roma.

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