Prima che la vittoria canti

L’Unità – Non facciamoci del male. A volte bonario e ironico, a volte sarcastico e angosciato, l’esorcismo morettiano naviga per definizione nel discorso politico della sinistra. Nasce da ricordi incancellabili, evoca scenari da mani nei capelli. Nessuno stupore, perciò, se all’indomani di una vittoria clamorosa come quella delle elezioni regionali le reciproche, straripanti felicitazioni erano condite regolarmente da quella formula scaramantica. Non facciamoci del male. E negli occhi gioiosi e astuti di ciascuno brillava la convinzione che, finalmente vaccinati dalla storia, nessuno avrebbe più portato il proprio granello alla pratica suicida. E invece…
E invece bisogna prendere atto che la spinta propulsiva a farsi del male è tutt’altro che esaurita. Un’occhiata, per dire, alla Laguna e vedi in lotta un bravo ex magistrato e un bravo ex sindaco già trasferitosi a Milano. Tutti e due di centrosinistra. L’uno candidatosi pubblicamente solo per contrastare l’altro, a sua volta poco felicemente scelto nei ranghi dei locali pubblici ministeri.
Oppure dai un’occhiata a Milano, finalmente teatro di uno scontro alla pari tra centrodestra e centrosinistra. E vedi un pullulare dissennato di candidature a sindaco per l’anno che verrà, con due più delle altre gonfiate: l’attuale presidente della provincia, vincitore da nemmeno un anno di un’altra importante partita istituzionale; e il prefetto, ottima e capacissima persona, ma che dovrebbe rappresentare la neutralità delle istituzioni. Come dire che nella capitale economica del Paese la sinistra non sa che pesci pigliare e quando piglia piglia male. O ancora vedi liste presentarsi agli elettori unitariamente per poi, subito dopo il voto, procedere a spaccarsi in più gruppi. Senza talvolta preoccuparsi nemmeno di offrire all’esterno l’immagine di un convinto spirito unitario. Oppure vedi ancora frotte di parlamentari firmare, subito, appena vinto, senza troppi problemi, una proposta di amnistia che (ma su questo tornerò) non salverà i dannati della terra e darà un colpo alla credibilità di chi vorrebbe essere forza di governo.
Ma il vero rischio in agguato, quello maggiormente in grado di «facciamoci del male» è oggi il trionfalismo. È l’idea che abbiamo vinto, che il vento è cambiato irreversibilmente. Come se non avessimo già una volta visto Berlusconi ridotto a leader detronizzato, come se non l’avessimo già dato per finito una volta per poi vederlo risuscitare e andare all’assalto dello Stato con furia e forza iconoclasta. Fa male il trionfalismo che corrode il tessuto sano dell’Unione. Che fa sentire i vincitori, e soprattutto i loro amici e compagni di cordata, come dei moderni Mosé che hanno traghettato il popolo italiano verso la terra promessa. Che induce frenesie di potere, che porta a risolvere con la forza o con il disinteresse più sovrano i dissensi interni. Perché quando si vince largo nessuno – così si pensa – è più indispensabile, meno che mai gli spiriti critici. Quando si è al governo non c’è tempo da perdere (il che, correttamente interpretato, sarebbe santo principio), e dunque è lecito infischiarsi di desideri, legittime ambizioni e competenze disseminati a sé d’intorno. Il trionfalismo in politica fa fare la fine delle squadre scudettate e sussiegose che le pigliano di santa ragione dalla provinciale che corre e sputa l’anima sul campo. Porta a non combattere. Porta a mostrare il volto peggiore, quello tracotante verso gli avversari che – si suppone – sono battuti da qui all’eternità. Trasforma anche i nostri (e qualche esempio lo abbiamo purtroppo già visto in tivù) in repliche acculturate dei terribili Schifani subìti in questi anni umilianti: quelli che, anziché discutere, ricordavano agli oppositori – tra gli applausi dei propri amici – che gli italiani li avevano sconfitti, finché gli italiani hanno sconfitto loro, presunti vincitori a vita.
E c’è di più, se si può dire tutta la verità. La certezza di avere vinto devia le energie combattive dalla dimensione collettiva a quella individuale. In questo preciso momento ci sono in Italia, nel centrosinistra e dintorni, centinaia di persone che si sentono ministri o sottosegretari in pectore. E c’è da giurare che se non passerà rapidamente la sbornia da trionfo ne avremo altrettante che, in quest’anno decisivo, si dedicheranno anima e corpo, più che a fare vincere la coalizione, a ritagliare un ruolo protagonista per se stesse. A volte con effetti benefici anche per il gioco di squadra, altre volte però producendo entropie micidiali nel corpo politico che esse dovrebbero guidare.
Ma il rappresentarsi come vincitori può indurre ad altri tipi di errori ancora. Al nemico che fugge, ponti d’oro. Così si dice, giustamente, in guerra. E il principio è bene che valga anche in politica. Specie oggi. Poiché ha senso invitare chi si ricrede sulla qualità del progetto berlusconiano a lasciare gli ormeggi e a transitare da questa parte, anche se il suo precedente abbaglio non depone molto a favore delle sue capacità di analisi politica. E tuttavia converrà sempre non dimenticare la grande lezione che abbiamo ricevuto in questi ultimi anni, e con una certa continuità. La differenza – in Italia e con questo sistema politico – non la fanno i moderati. La differenza vera la fanno i cittadini qualunque, quelli che non hanno consiglieri comunali da spostare di qua e di là, e che non tengono rubriche sui quotidiani più prestigiosi; la fanno i normali cittadini che credono in un progetto o lo rifiutano, d’istinto o alla prova dei fatti, capaci anche di passare da un estremo all’altro, dal vecchio Pci alla Lega o a Forza Italia. Sono loro che cambiano il colore a un collegio elettorale o a una regione, e poi magari gli restituiscono quello precedente. E c’è un’altra differenza che conta, quando il primo partito è quello di chi non va a votare: la composizione degli astensionisti. Ci sentiamo trionfatori, più che vincitori, perché abbiamo conquistato la Puglia, il Lazio, il Piemonte. Ma in ciascuna di queste regioni la conquista è avvenuta grazie ad alcune migliaia di voti. Di gente che ha scelto di andare (o non andare) a votare per questa o per quell’altra parte. Ecco dunque il problema che discrimina – nei fatti – chi sa da chi non sa vincere: il modo in cui si tratta l’avversario che ha perso. Se nuoce l’eccesso di arroganza nuoce anche l’eccesso di generosità, quello che fa spalancare le porte a chi è portatore di culture e biografie incompatibili con la maggioranza degli elettori del proprio schieramento. L’eccesso che ingenera nei sostenitori senso di inutilità del proprio impegno, sfiducia nel cambiamento, l’idea di un eterno ritorno; talvolta, in certe zone, perfino imbarazzo e vergogna circa le scelte che si è chiamati a condividere.
Tutto questo bisogna sapere, in una politica che richiede combinazioni variabili di duttilità e di intransigenza. Ma che non può permettersi di sbagliare le dosi dell’una e dell’altra, pena il rischio di passare dalla felice contemplazione delle proprie fortune alla più disperata constatazione di quanto siano bari gli umani destini. Sono ancora fresche le frasi e le immagini delle auto blu del ‘96 e di quel che venne dopo perché si possa cadere ancora in quell’errore. La fede dei giusti, a partire dai Vangeli, lo considera peccato capitale, per Dante il più grave di tutti. E gli ha dato il nome di superbia.

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