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Con la scusa di Anna Falchi
L’Unità – Scusate, ma che diavolo ci importa di Anna Falchi? O, per dirla più urbanamente, che cosa ci importa del suo sms d’amore al marito Stefano Ricucci? Perché una cosa bisogna pur dirla: le intercettazioni della saga Bankitalia e dintorni lette negli scorsi giorni sulla stampa smuovevano sì inquietudine e indignazione, grondanti com’erano basso impero e spirito pirata. Ma il passo che, alla lettura, ha fatto maggiormente soprassaltare sulla sedia il sottoscritto è stato quello che riguardava un sms totalmente personale di una donna celebre.
Messaggio squadernato senza ragione per il sollazzo di centinaia di migliaia di lettori, per la divertita pruderie di un pubblico che dei personaggi dello spettacolo vorrebbe conoscere e commentare anche i segreti più riposti. Non è stato l’unico passaggio in cui sia stato, in questi giorni, violato il principio della privacy in modo gratuito. Ma certo in quel passo si è concentrata -sia pure inconsciamente, credo- una tentazione ricorrente: quella di offrire con la pubblicazione delle intercettazioni non il contesto nel quale fioriscono le notizie di reato, e nemmeno un formidabile affresco di etica civile; ma un buco della serratura mediatico attraverso cui spiare (tra una notizia possibile di reato e un frammento di pubblico malcostume) la vita più riservata di protagonisti e soprattutto comprimari o comparse. Già visto con la figlia di Necci, già visto con Simona Ventura. Ed è un’esperienza sufficiente per dire che a darsi una regolata dovrebbero essere, tutti insieme, magistrati, avvocati e giornalisti, ciascuno dei quali contribuisce a lasciare quell’inutile passaggio negli atti e poi a farlo arrivare al pubblico. Piuttosto che inseguire a piccoli passi l’America nella devastazione della privacy dei personaggi pubblici (e usiamo pure il caso Lewinsky come metafora estrema) sarebbe bene se da quella civiltà prendessimo il meglio, a partire -magari- dalla severità delle norme che regolano la concorrenza e la trasparenza dei bilanci.
Il tema delle intercettazioni e del loro uso dunque c’è, ed è forse di deontologia prima ancora che di codici. Ma certo non si manifesta nella forma in cui sembra volerla porre il capo del governo con la sua maggioranza, già pronti all’ennesima legge-spugna, sulla cui ipotesi troveranno senza dubbio tante cattive coscienze pronte ad allinearsi, così come sulla legge di attuazione dell’articolo 68 (immunità parlamentare), che con vasti consensi diede il peggio di sé proprio in questa materia. La mole delle intercettazioni effettuate ogni anno è inusitatamente grande rispetto ai dati che ci giungono dai confronti europei? Ma certo. Il fatto è che solo nel nostro paese hanno radici e sviluppo, e intrattengono sistematici rapporti con la pubblica amministrazione, quattro organizzazioni criminali capaci di esercitare un vero e proprio dominio territoriale, fondate su una omertà quasi ferrea, e in più dotate di elevatissimo potenziale di dissuasione nei confronti dei testimoni e di tutti gli altri soggetti a vario titolo in grado di collaborare allo svolgimento di normali indagini, dai pubblici impiegati ai medici legali. Organizzazioni criminali che negli ultimi anni sono anche state beneficate (diciamo in buona fede?) di una legislazione più favorevole proprio sul piano decisivo dell’acquisizione delle prove: sia per quel che riguarda i testimoni sia per quel che riguarda i collaboratori di giustizia (i “pentiti” per intendersi).
Di più. La distanza tra i numeri italiani e quelli stranieri è anche in parte riconducibile alla natura maggiormente garantista del nostro sistema, che richiede comunque un’autorizzazione dell’autorità giudiziaria, laddove in altri paesi, non meno democratici del nostro, a partire dall’Inghilterra, il sistema poggia su una intensa e autonoma attività investigativa dei servizi o delle forze di polizia. Non fu proprio questo, forse, un argomento usato ripetutamente all’epoca della legge sulle rogatorie? Non venne spiegata così, allora, la pretesa che gli atti provenienti dall’estero -per essere considerati validi nel nostro processo- fossero stati assunti esattamente con le stesse procedure italiane? Non si evocò cioè la facoltà, vigente in molti paesi europei, che la polizia effettuasse intercettazioni o facesse indagini autonomamente e non sotto il controllo dei magistrati? Ora, se tutte le intercettazioni legali passano per l’autorità giudiziaria è anche ovvio che la magistratura italiana risulti farne -a parità di condizioni- un uso maggiore.
Il fatto però è che neanche le condizioni sono pari. E al di là di quanto abbiamo fin qui detto. Perché se non è nemmeno il caso di ricordare quanto possa essere preziosa un’intercettazione ambientale in un’indagine di mafia o terrorismo, vale invece la pena di ricordare quale sia il livello di illegalità diffuso nelle nervature istituzionali o dei grandi sistemi parapubblici, assai più elevato rispetto alla media europea (la corruzione esistendo dappertutto ma non essendo egualmente estesa ed arrogante). Come potrebbe pensare un magistrato di affrontare questi mondi rinunciando alle tecniche di indagine più incisive, quando gli stessi movimenti bancari, anche dettagliatamente documentati, o testimonianze al di sopra di ogni sospetto, o dati di fatto incontrovertibili, a volte non bastano a costituire “prova” appena ci si imbatta in un rappresentante medio-alto del potere? E andando alla anomalia del nostro sistema processuale: perché non dovrebbe un magistrato assicurarsi di dare la massima tenuta nel tempo alla sua attività investigativa quando siamo probabilmente l’unico paese che abbia insieme un sistema accusatorio e un processo d’appello, celebrato per di più esclusivamente sulle carte, senza testimoni e interrogatori, ossia senza la parte viva, il “materiale umano”, del dibattimento, e dunque più esposto all’ingiallimento, alla progressiva evaporazione delle stesse ragioni del processo?
Tutto ciò non affievolisce ovviamente il richiamo, comparso ieri su queste pagine, di Giuliano Pisapia circa il carattere eccezionale dello strumento investigativo, il quale va usato solo per indagare su certi reati e commisurandolo alla eccezionalità della situazione. Sicché dove ci sono abusi nel metodo, dettati da pigrizie e assuefazioni, è bene che vi siano interventi correttivi, meglio se preceduti da una responsabile attività di monitoraggio del Consiglio superiore della magistratura. Quel che non si può accettare, ma nemmeno in linea di principio, è che dopo avere depenalizzato comportamenti criminosi perseguiti con la massima fermezza all’estero, dopo avere condotto una decennale campagna di delegittimazione contro i collaboratori di giustizia, dopo avere gettato (con il nuovo ordinamento) le premesse per una maggiore ingerenza del potere politico nella attività giudiziaria, dopo avere deciso quali giudici non devono andare in pensione e chi non deve, invece, guidare la procura nazionale antimafia, dopo che si è deciso di prescrivere quasi duecentomila processi all’anno per farne prescrivere uno, si tolgano anche i mezzi di prova alla giustizia. Piuttosto il governo ci consegni una bella indagine sulle intercettazioni illegali. Ci spieghi perché è stato possibile che una grande compagnia che fornisce pubblici servizi nella telecomunicazione potesse progettare di affidare il controllo di tutto il traffico delle intercettazioni legali a un gruppo di potere che faceva investigazioni private. E ci spieghi, già che ci siamo, perché la società che ha avuto il monopolio del brokeraggio assicurativo per il Senato si chiama Rasini. Fortunato, questo Fiorani.
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