Questo sito non utilizza alcun cookie di profilazione. Sono utilizzati cookie di terze parti per il monitoraggio degli accessi e la visualizzazione di video. Per saperne di più e leggere come disabilitarne l'uso, consulta l'informativa estesa sull'uso dei cookie.AccettoLeggi di più
Strani riformisti a Milano
L’Unità – Parole. La vicenda Veronesi ha rilanciato a Milano la sempreverde polemica sul riformismo. L’ha rilanciata nel modo più ingannevole. E tuttavia proprio per questo non bisogna voltarsi dall’altra parte. Piuttosto bisogna prendere il toro per le corna. E incominciare a piazzare qualche paletto culturale e prima ancora mentale nella discussione. Per avere una bussola per il futuro.
Riassumiamo i termini del problema. Di fronte alla candidatura dell’oncologo c’è stato chi ha chiesto -e il sottoscritto tra questi- che si procedesse alla costruzione di una rosa di candidature tra le quali scegliere quella più convincente per l’intero centrosinistra milanese. E in questa rosa il professor Veronesi ci stava di diritto. Perché non comparare pregi e controindicazioni possibili di ciascuna proposta? Perché rifiutare il procedimento razionale del confronto, al di fuori -come si dice- del tritacarne mediatico? Eppure l’idea è sembrata grave, gravissima. Un’offesa intollerabile. Un sabotaggio contro la vittoria certa, certissima, del centrosinistra a Milano. Certissima solo e soltanto con Veronesi. Fino a far parlare di suicidio. Di occasione persa quando bisognava accendere un cero alla Madonna. Di rigurgiti di moralismo. Di rifiuto, eccoci, di una cultura riformista. Un’etichetta dietro l’altra, un’affermazione apodittica dietro l’altra, una traslazione “logica” dietro l’altra, si è costruita la gogna per chi ha pensato che, trattandosi del futuro di una città come Milano, sarebbe stato opportuno riflettere, comparare e scegliere.
Soprattutto che sarebbe stato opportuno farlo di fronte alle lodi di buon governo tessute dal professore nei confronti del sindaco Albertini e del governatore Formigoni (e poi del ministro Storace). Lodi che non scuotono molto chi, “riformista”, con Albertini o Formigoni ci ha governato o ci governa. Ma che -come non capirlo?- scuotono e disorientano chi li ha combattuti per circa un decennio dall’opposizione. I tifosi di Veronesi hanno stabilito -loro- che quelle dichiarazioni sarebbero state del tutto ininfluenti. E che tutti i voti del centrosinistra si sarebbero sommati gaiamente con tanti voti provenienti dal centrodestra. Mentre la realtà toccata con mano da chi girava per la città diceva che una lista di dissenso sarebbe nata alla sinistra dell’oncologo; e con potenzialità di ampi consensi, specie se sostenuta, com’era praticamente certo, da Rifondazione. E che una buona parte del centrosinistra (dal mondo cattolico alla sinistra radicale, passando per il grande e variegato popolo diessino) non avrebbe seguito con slancio quella candidatura. Ragione profondamente politica (e non morale) per chiedere con ancora più decisione di non partire come un treno dietro quel nome, per quanto prestigioso e scientificamente benemerito.
Finché il professore ha dichiarato il gran rifiuto, sulle cui motivazioni ognuno può almanaccare secondo convinzioni mentali e predilezioni polemiche. Il fatto è che si è scatenata subito la caccia al colpevole da parte dei “riformisti” milanesi. Va da sé che sulle posizioni espresse -su quelle, non su quelle inventate- nessuno si tira indietro, meno che mai il sottoscritto. Ma è curiosa l’irruzione delle categorie interpretative di riformismo e antiriformismo in questo dibattito. Poiché il riformismo ha una sua storia, una sua cultura, una sua anima ideale. Le cui declinazioni cambiano con il tempo, senza che però ne cambino la natura o l’ispirazione. Il termine indica infatti, da sempre, la capacità di tenere conto dei dati di realtà nella costruzione del classico “futuro migliore”. E per questo si distingue dal massimalismo, uso infischiarsi dei fatti per immaginare possibili cose che non lo sono. Riformismo significa cambiare la realtà in nome di valori precisi, non puntare a vincere al di fuori di quei valori, o nella professione di una rigorosa neutralità verso di essi. Riformismo significa, ancora, mettere in cima gli interessi dei più deboli e lavorare alla ricerca di un compromesso -il più possibile conveniente- tra essi e gli interessi forti operanti nella società. Riformismo significa credere nelle virtù mediatrici della politica e nella forza del suo intreccio con un ampio sistema di domande sociali (e non concentrare -quasi si fosse portatori sani di berlusconismo- ogni speranza di palingenesi su un deus ex machina).
Il modo in cui i “riformisti” milanesi sembrano vivere questo termine designa però tutt’altro. Esso evoca per lo più un ambiente sociale, un milieu di rapporti, il loro, che avrebbe voluto mettersi alla guida dell’operazione Veronesi chiedendo all’Unione di aggiungersi come ottima truppa di complemento in cambio della promessa di potere finalmente “vincere”. Riformista è a Milano un’etichetta autopromozionale di un ristretto giro di persone tra le quali si trovano sia quelli che acclamarono a suo tempo la vittoria della Lega (il celebre “grazie barbari”) sia quelli che hanno governato o governano con Albertini o Formigoni o, ancora, quelli che residuano dell’area politica che dilapidò a suo tempo in pochi anni il grande patrimonio del vero riformismo milanese. Un ceto che si gratifica dei suoi stessi diplomi circolari, speculare a quello che dispensa altrove i diplomi di purezza democratica o rivoluzionaria.
E se talora i dettagli più piccoli illuminano l’insieme, un episodio di questo assurdo contenzioso su “riformismo” e “veronesismo” spiega come pochi altri il rapporto tra parole e tradizione. Ed è il commento fatto da un membro del citato milieu: che cosa ci si aspettava -ha chiesto egli riferendosi alla mia persona- da chi nel ’93, nella sua campagna per l’elezione a sindaco, prometteva latterie e osterie a prezzi convenzionati nelle periferie? Ovviamente questo non era che uno dei tanti punti “minori” del programma. Ma provi il lettore a rifletterci. E’ davvero così immondo che un riformista si preoccupi del carovita, del senso di abbandono che possono vivere specie di sera le periferie, dello svuotamento di relazioni dei più anziani, dell’emarginazione per bande dei più giovani? Così assurdo che si preoccupi di offrire luoghi di ritrovo, come quei rari e preziosi circoli dove un vecchio o un ragazzo con un euro passano una sera? Che immagini, come ha sempre fatto il riformismo, forme di cooperazione e di economia sociale di mercato per andare incontro ai bisogni dei più deboli? Anzi, oggi più di allora, vista la desertificazione delle periferie e vista l’insopportabilità dei costi del vivere quotidiano, questo dovrebbe essere un obiettivo politico di chi voglia segnare una discontinuità di governo rispetto all’Albertini orgoglioso della sua Milano dove “tutto vale di più”. Provi il lettore a riflettere sul fatto che così pensano i “riformisti” di Milano. Provi a entrare nel loro disgusto verso le misure, anche piccole, che possono alleviare la povertà e/o la solitudine. Provi a pensare che l’inizio della crisi del riformismo milanese, durato quel prezioso arco di decenni che ha portato da Turati a Tognoli, è coinciso con l’identificazione tra riformismo e disponibilità all’affarismo. E capirà come sia urgente ridefinire i principi e le parole. Azzerare le rendite di posizione verbali. Per guardare avanti e costruire un nuovo riformismo milanese. E chissà che le polemiche sul caso Veronesi, con la loro virulenza, il loro carico di rancori e di insulti personali, non possano alla fine essere utili per ridare alla parole il loro senso più vero. Visto il ruolo di Milano, ne guadagnerebbe il paese intero.
admin
Next ArticleCiò che Grasso non può dire