Ciò che Grasso non può dire

L’Unità – «Fuori i nomi». Il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso ha fatto una denuncia che dovrebbe suscitare apprensione e inquietudine. E anche qualche imbarazzante esame di coscienza. Invece è scattata l’intimazione che da decenni accoglie ogni denuncia coraggiosa. Il fatidico «fuori i nomi». L’irritazione che si fa pubblica sfida. Grasso ha replicato. E, precisando, ha fatto esempi concreti di collusioni tra mafia e imprenditori, tra mafia e politica.
Ma per dire che dietro la latitanza di Provenzano ci sono esponenti del mondo politico, imprenditoriale, professionale e delle forze di polizia, egli deve essersi formato nella sua esperienza investigativa uno scenario ben più ricco e sconcertante. Di cui probabilmente nulla può dirci al momento; ma su cui ha raggiunto una amara e preoccupata consapevolezza che ha voluto tradurre in grido d’allarme. E ha fatto bene. Perché i cittadini italiani hanno il diritto di sapere dopo tanti anni per quali ragioni il superlatitante di Cosa Nostra sia inafferrabile. Perché egli riesca a sfuggire a operazioni di cattura predisposte (così abbiamo saputo) in modo meticoloso e mirato.
Pur dicendo una cosa enorme, Grasso non ha però detto nulla di stupefacente. I precedenti di protezioni e di relazioni pericolose non mancano davvero. Lo stesso Giulio Andreotti non si vide forse con Stefano Bontate a ridosso dell’omicidio Mattarella senza per questo sentirsi in dovere di raccontare alle forze dell’ordine quello che sapeva sull’omicidio e dove trovare e catturare l’allora capo di Cosa Nostra? E anzi, sempre per restare a Piersanti Mattarella: non accadde forse che nemmeno mezz’ora dopo il suo appassionato racconto in un Consiglio dei ministri dell’autunno del ’79 circa i propri intendimenti e le difficoltà che aveva nella guida della Regione siciliana, i boss ne vennero informati per filo e per segno da un membro del governo? E che dire delle vicende sulle quali proprio la procura di Palermo ha da poco indagato, in cui mafia e politica si mescolano ad alto livello, con indagini seguite per conto degli indagati da fidi sottufficiali, con tanto di informali relazioni di servizio? E ancora: non ci fu un governo agli inizi degli anni novanta in cui sedevano ben sette ministri i cui numeri di telefono privati furono trovati sulle agendine dei boss? Sono solo pennellate di una realtà ambigua, sfuggente, polimorfa. In cui le istituzioni impastano al loro interno Stato e amici dell’Antistato. E in cui informazioni e favori si muovono sui binari proibiti della complicità.
Da sempre. Ma che ancor più trovano agio di farlo oggi. Oggi che i segni di un tacito compromesso vanno affastellandosi in una sequenza impressionante, che ha ormai generato un paradosso inedito. Una volta, infatti, si lamentava l’assenza di una legislazione speciale antimafia. Ora quella legislazione c’è. Ma intanto – una legge ad personam dopo l’altra – è andata a farsi benedire proprio la legislazione ordinaria, diventata un autentico colabrodo, una manna per ogni associazione a delinquere.
Mentre la legislazione speciale, che per nascere ha avuto bisogno della scia di sangue che dall’82 porta al ’92, viene ogni volta confermata trionfalmente sulla carta; per essere però ogni giorno svuotata nei fatti, dalla applicazione del 41 bis (il carcere duro) alla applicazione della confisca dei beni. La legge insomma sposta il suo contenuto, prescrittivo o operativo, a favore di chi milita nell’illegalità.
È dunque questa l’aria in cui lo scambio di visite, di informazioni, di favori, appare meno ambiguo e irresponsabile. In cui ci si può voltare dall’altra parte anche di fronte all’emergenza calabrese. Ci sarà ad esempio una ragione se la Commissione parlamentare antimafia, nella sua relazione di metà legislatura, indicava nella ‘Ndrangheta il primo pericolo criminale, quello dotato di maggior forza espansiva, e il governo nulla ha fatto per due anni davanti a quella indicazione. E se il ministro della Giustizia, dopo il delitto Fortugno, oggi protesta che in Calabria i magistrati ci sono, che c’è lo stesso rapporto toghe-cittadini delle altre regioni, proprio come se quella non fosse, per l’appunto, una regione in drammatica emergenza.
C’è un’aria per cui tutto diventa «più possibile», là dove molto, e per lunghi decenni, era già stato possibile. La scoperta che amici stretti della ‘Ndrangheta coltivassero rapporti con le utenze del Viminale tra il ’99 e il 2002 (ossia a cavallo dei governi di centrosinistra e centrodestra) è solo l’ultima in ordine di tempo. Ma è pure indicativa la sorda resistenza ad applicare anche per le elezioni al parlamento la legge approvata per gli enti locali, quella cioè che prevede -tra l’altro- l’incandidabilità di chi abbia riportato condanne definitive per mafia. Per quale visione mai del diritto costituzionale e dell’Italia un mafioso conclamato dovrebbe avere infatti il diritto di sedere in parlamento?
Ma fin qua abbiamo parlato della ambiguità da collusione, da complicità intenzionale. Quel che ha detto Grasso ci porta però diritti anche a un’ altra questione che ci coinvolge tutti. Ed è quella del dovere di riservatezza che tutti abbiamo rispetto alle funzioni pubbliche che svolgiamo. Perché la rete protettiva spesso si avvale di prestazioni inconsapevoli. Un’informazione può essere pagata in denaro, anche se non si sa da chi esso arrivi. Oppure in debito di gratitudine, da inserire nella consueta ricca rete di scambi e di favori. Ecco. Occorre che ciò che viene saputo per ragione del proprio ufficio venga tenuto al riparo da curiosità politiche (quando sono improprie, eccentriche), da curiosità professionali, giornalistiche. Che ciò che si sa come investigatori, come giudici, come membri dell’Antimafia, non venga spiattellato nei salotti, nei corridoi di prefettura o di tribunale, nelle tavolate di amici. Il mafioso d’oggi è sempre più spesso un professionista: medico, commercialista, avvocato, architetto. Sempre più spesso cerca di entrare in politica direttamente. Il medico o il politico non è più, insomma, soltanto un «amico» dei picciotti. Può essere anche un capo-mandamento, un boss a ventiquattro carati. E non lo si riconosce. Dunque si è portati a parlargli con scioltezza, perché è apparentemente parte, quasi arredo fisso, del proprio ambiente.
Mai come oggi, in questo vuoto spinto di etica istituzionale in cui sono costretti a muoversi i tanti che fanno il loro dovere contro la mafia, bisogna dunque richiamarsi a un supplemento di attenzione. Non è la famosa «cultura del sospetto» a dovere essere invocata. Ma la «cultura della responsabilità». Quella che porta a sapere guardare oltre le apparenze (e la pretesa innocenza delle frequentazioni) nell’interesse della propria funzione e dello Stato. Quella che porta a non baloccarsi vanitosamente con le informazioni di cui si dispone. Un indirizzo, un orario, un’operazione in corso, l’audizione secretata di un magistrato in Antimafia, una testimonianza, una battuta maligna su chi è in prima fila. Nulla deve arrivare a chi può proteggere i criminali, nulla a chi può reagire. Giovanni Falcone diceva che per vincere la mafia bisogna organizzarsi almeno bene quanto lei. Nelle strutture e nei comportamenti. Ecco, la mafia non parla.

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