Voti di mafia

L’Unità – Uno spasso. Un autentico spasso. Ma sì, credeteci. La relazione di maggioranza della Commissione antimafia non è solo una vergogna, come avevamo detto un po’ precipitosamente dopo averne consultato l’impianto e afferrato il senso generale. Non è solo il certificato di innocenza politica di Andreotti, non è solo una coltellata alle spalle della procura di Palermo o la beatificazione di Totò Cuffaro, questo vispo erede di Maria Teresa d’Austria e Leopoldo di Toscana. Ma è anche una spumeggiante, comica sintesi di tic professionali, di amene teorie “scientifiche”, di argomentazioni che vorrebbero essere euclidee e sono al tatto friabili come meringhe. Basta avere la pazienza di navigare tra le cinquecento pagine dedicate ai rapporti tra mafia e politica (ossia, in definitiva, al processo Andreotti) per imbattersi in perle strepitose. Perle che illuminano -partendo dai dettagli- cultura e intenti, psiche e manie dell’estensore. Il quale può essere uno o bino o trino.



Ma una cosa è con scandalosa certezza: un signore estraneo alla commissione antimafia. Che, investito da un altro estraneo del compito supremo di scrivere sui rapporti tra mafia e politica, ha dato libero sfogo a tutto ciò che gli passava per la testa, come quei maestri un po’ frustrati a cui per una botta di fortuna sia messa in mano, senza controlli, la terza pagina di un quotidiano di provincia .
Volete sapere qual è la perla più grossa, la “sparata” da capodanno del nostro misterioso estensore (magistrato o forse avvocato, non si scappa)? Che la mafia non ha mai avuto alcuna rilevanza nell’orientare il voto, e nemmeno le elezioni. Avete letto bene. Testuale: “ne deriva finalmente una lettura dei fatti storici che affranca uno dei miti più a lungo e pervicacemente sostenuti sul preponderante potere mafioso nel decidere gli esiti elettorali siciliani”. E ancora: “La sostanziale incapacità di Cosa Nostra ad incidere significativamente sul voto è un dato assai importante”. Lasciamo perdere la sintassi (ahimé, una volta contava anche quella…) e andiamo al sodo. Qui, nella Relazione ufficiale della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia, si sostiene -nascondendosi dietro quel “preponderante”- che la mafia non è in grado di orientare la politica. Che la mafia non condiziona il voto. E quindi, in definitiva, che la mafia non ha rapporti significativi con la politica. E d’altronde come potrebbe averli se non è in grado di conferire alla politica le sue (presunte, millantate) specifiche risorse, ossia voti e finanziamenti per le campagne elettorali? E perché mai i politici, per quel che li riguarda, dovrebbero promettere favori alla mafia se essa non dà prima loro qualcosa in cambio?
No, il condizionamento elettorale non esiste. Insomma ragazzi, chiudiamo la Commissione. Che fessi Franchetti e Sonnino, parlamentari agli albori del Regno. Che fessi Napoleone Colajanni o Bernardino Verro, repubblicano e socialista dei decenni successivi. Che fessi Li Causi e La Torre. Che fessi Carlo Alberto dalla Chiesa (“la famiglia politica più inquinata del luogo”, riferendosi a quella andreottiana) o Giovanni Falcone, che aveva stimato in 180.000 i voti controllati da Cosa Nostra nella provincia di Palermo. Custodi insensati e testoni di “uno dei miti più a lungo e pervicacemente sostenuti”; tanto che se fossero ancora vivi meriterebbero qualche lezione privata, magari con bacchettate e scapaccioni, dal geniale estensore della Relazione. E non è finita. Perché la mafia, sempre secondo quest’ultimo, cercherebbe e avrebbe cercato rapporti con la politica solo per avere appalti in sede locale ma non ha mai avuto “la volontà di incidere ad alto livello nello scenario politico generale”. Siamo alla gag dialettica. Come si spiega infatti che la mafia non sia stata mai sbaragliata in un secolo e mezzo, che abbia avuto appoggi, sostegni, coperture ovunque, dal delitto Notarbartolo a Sindona, dal delitto Mattarella alle impunità processuali e alle latitanze dorate, con in mezzo Portella delle Ginestre e quaranta sindacalisti uccisi senza una condanna? Che al momento giusto ci sia sempre il vento utile a rimetterla in sella? Tutto grazie agli appalti spartiti localmente con qualche assessore birbone?
A questo punto vorrete conoscere le motivazioni che sorreggono questa teoria copernicana. E avete ragione. Eccovi dunque quella cruciale. Che in un caso (era l’87) Cosa Nostra, pur avendo indicato di votare Psi, non ha svuotato la Dc! Tranne a Caltanissetta. Fantastico. Ma perché, c’è mai stato qualcuno che ha pensato che tutti i siciliani votassero come voleva la mafia? Forse qualche leghista lo pensa. Ma chi ha una minima consapevolezza storica sa che la forza elettorale della mafia è fatta di investimenti selettivi sui candidati giusti, su una singola corrente, sulla conquista dei differenziali elettorali decisivi (nelle preferenze o nei singoli collegi). Suggestivamente il collaboratore Antonino Giuffré dichiara che Riina era sì il numero uno sul piano militare ma che politicamente era un dilettante. Per tanti aspetti è vero. Ma questo conferma che l’idea di spostare i voti sul Psi per punire una Dc resa prudente dalla catena dei delitti eccellenti, non poteva funzionare proprio perché da troppo tempo la Dc o meglio alcuni suoi leader erano il punto di riferimento di interessi mafiosi o paramafiosi consolidati. L’insuccesso (parziale) dell’indicazione elettorale estemporanea di un capo temuto ma poco rispettato politicamente fu cioè il segno del radicamento storico dei voti mafiosi, non della loro volatilità. Tanto che, riferendosi alle elezioni europee di due anni dopo, Angelo Siino racconta (sempre e inutilmente a verbale) “Ci fu un plebiscito per Lima…tutta la parte della vecchia mafia che aveva votato sempre per Lima continuò a votare per Lima”. Anche questo, ovviamente, è a disposizione della mente del geniale estensore. Che però non capisce, e sembra proprio in grado di non capire (“si applica ma non rende”, si sarebbe detto una volta).
Per compenso egli bacchetta furiosamente a destra e a manca come quel maestro di provincia diventato improvvisamente elzevirista. Dall’alto della sua prosa caricaturale: “Tale meccanismo di abreazione delle fonti dirette di prova (…) nell’impianto inferenziale della Corte d’Assise di Appello di Perugia, poi inevitabilmente caducato in Cassazione”; o “gli aspetti leggermente più risalenti della delibazione del predetto evento criminoso”. Dall’alto del suo pensiero pacato e sereno: “Questo rinvia agli effetti mediatico-politici del processo sui giudici di secondo grado di Palermo, a non voler pensare ad una parziale volontà di recupero delle tesi accusatorie onde evitare la loro disfatta completa” (insomma, quei giudici, invece di applicare le leggi, hanno solo pensato a tirare una ciambella di salvataggio ai pm). Dall’alto della sua sapienza. Che è davvero notevole, perché l’estensore ha anche qualche velleità accademica. E infatti, cosa un po’ anomala in un rapporto parlamentare, invece di citare -che so- gli atti del processo Dell’Utri o di qualche inchiesta sulla mafia in Lombardia, cita Goethe, cita Hegel, cita Junger, e offre perfino note bibliografiche. Una delle quali merita di essere ricordata, per lo spasso del lettore. Egli vi consiglia di documentarsi meglio sulla “critica dell’esistenza nella storia di leggi ineluttabili, che vanno nel verso del miglioramento della condizione umana”. E di leggersi in proposito due saggi, uno di Karl Popper e uno di Massimo Fini. Ora, sono amico ed estimatore di Massimo Fini. Ma come si fa ad abbinare i due nella stessa nota, sacripante d’un genio? E’ come dire Max Weber e Nando dalla Chiesa. Come dire Aristofane e Travaglio. Roba da pazzi. Roba da ridere. Che spiega tutto. A Milano questi casi umani li liquidano con una battuta: ofelee fa’ el to meste’. Panettiere, fai il tuo mestiere. La storia, la filosofia, l’analisi politica (e anche la bella prosa) falla fare a qualcun altro. O rischi di trovartela “caducata”…

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