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Il bastone, la carota e una pagina strappata
Dopo il mio articolo di mercoledì scorso («Verità è morta, generale dalla Chiesa») hanno scritto ieri all’Unità Francesco Cossiga e Giovanni Minoli. Ecco come ho risposto alle loro lettere.
l’Unità (20 gennaio 2006) – Ha ragione Minoli. Quando si racconta la storia degli uomini, le agiografie, intese come biografie dei santi, non servono a nessuno. Su questo non si discute. Tanto che farebbe piacere vederne in giro un po’ meno, specie quando i "santi" sono vivi e potenti. Se ho chiamato in causa la puntata di lunedì scorso della «Storia siamo noi» è dunque per una ragione molto precisa. Ed è che ha mandato in onda una affermazione, anzi due affermazioni, in grado di colpire l’immagine della persona ricordata senza alcun contaddittorio. Due affermazioni, attenzione, che non sono giudizi o valutazioni critiche; ma indicazione di fatti, di fatti specifici. Primo. Dalla Chiesa era di famiglia massone; lo erano lui, suo padre e suo fratello. Secondo. Dalla Chiesa era negli elenchi della P2, ma la pagina con il suo nome fu strappata. Lo ha detto Cossiga, che lo ha ripetuto ieri su questo giornale aggiungendo, a proposito della prima affermazione, «come è accertato» (dove? quando?).
In sé l’essere massone può non essere un delitto. Ma il quadro disegnato attraverso la doppia affermazione ha un segno inequivoco. Per Cossiga, che per la P2 ha sempre avuto un debole, è un complimento. Per molti italiani no. E siccome -giustamente- stiamo parlando non di un santo ma di un uomo, sorge spontanea la domanda: su quale uomo in vita sarebbe possibile andare in televisione e fare due affermazioni come queste senza che egli possa rispondere? E può avere le stesse (sottolineo: le stesse) garanzie di un qualunque cittadino, non dirò un eroe ma un uomo caduto per lo Stato e ai cui diritti il servizio pubblico più di tutti dovrebbe essere sensibile? Certo, in questo caso l’interessato non può rispondere; ma altri per lui sì. Ad esempio trenta secondi di trasmissione potevano ben essere spesi per sentire la risposta dei giudici Gherardo Colombo o Giuliano Turone sulla storia della pagina strappata. Chi la strappò? Loro? Altri inquirenti amici di mio padre? Gelli prima del ritrovamento degli elenchi, magari dopo una soffiata dalla Procura di Milano? A loro risulta qualcosa?
Dice Minoli: Cossiga è testimone. E di che, di grazia, visto che questo reato non lo ha mai raccontato ai magistrati o al parlamento? I testimoni sono un’altra cosa. Sono quelli che hanno vissuto una cosa per esperienza diretta. E quale testimonianza, sempre ad esempio, può egli offrire sulla iscrizione alla massoneria di mio nonno
Minoli è un grande professionista. E quindi conosce perfettamente queste minime regole che oggi sono assurdamente costretto a ricordare. E sa che in queste trasmissioni in cui il tempo è sempre tiranno si fanno scelte importanti, che portano a un risultato tra i mille possibili. Scelte che riguardano l’uso dei minuti e dei secondi, la successione delle dichiarazioni, il montaggio delle immagini e delle parole. E dunque perché affrontare la vicenda facendone -per tempi, per enfasi, per richiami simbolici- un punto centrale della trasmissione? Resistenza, lotta alla mafia in tre riprese (sulle sue indagini sull’assassinio di Placido Rizzotto è stato fatto un film…), lotta al terrorismo, i nomi dei politici all’Antimafia. Ce n’è da non sapere più dove mettere tutto il materiale. Se si sceglie di dare quello spazio alla vicenda (che certo non poteva essere sottaciuta) una ragione indubbiamente c’è stata. Se quella vicenda, anzi, è stata considerata -diciamo la verità- la "cifra", il succo del programma tanto da farne il cuore delle anticipazioni ai giornali (o no?), una intenzione, anche solo giornalistica, c’era. Diciamo una predisposizione psicologica, se allo stesso Minoli nella risposta di ieri è sfuggito di scrivere «sui motivi della sua iscrizione alla Loggia P2». E lascio perdere il riferimento del conduttore alla carte di Moro che potrebbero essere state alleggerite dal generale di qualche loro parte prima di arrivare nelle mani del governo.
Ecco perché, oltre che per alcune altre indelicatezze, ho provato amarezza oltre che sofferenza. Perché conosco le regole. Perché so che io non potrei mai andare in tivù a fare affermazioni indimostrate su un potente vivo senza che lui possa rispondermi. Anzi, non posso nemmeno andarci a fare affermazioni dimostrate, dimostratissime. Perché so che quando si fanno questi programmi si ha in genere, senza per questo indulgere alle agiografie, un di più di rispetto per i protagonisti. Un di più che porta a ricordare Borsellino per ciò che era, non certo ascoltando la "testimonianza" di Corrado Carnevale o riprendendo le speculazioni imbastite contro di lui dopo lo sfortunato investimento di due ragazzi a opera della sua scorta. Che porta a ricordare Tobagi senza dar credito agli "episodi controversi" a cui i suoi avversari avvelenati volevano inchiodarlo (e alla fine forse lo inchiodarono). Che porta insomma a ricordare queste persone – uomini, non santi – liberandole almeno delle tante maldicenze mai provate. Certo mai aggiungendone.
Da qui, e non da uno scoppio di emotività, la sensazione di una trasmissione tutta "carota e bastone": belle immagini e accostamenti maliziosi, onore al merito e insinuazioni, memoria grata e rigurgiti del fango sparso per anni senza successo. Sensazione che non abbiamo avuto solo noi familiari (a proposito: mia sorella Rita non ha affatto mandato messaggi di congratulazioni, come scrive Minoli…), ma che hanno avuto in tanti, giovani e meno giovani, testimoniandolo per sms e posta elettronica.
Peccato. Per una bella trasmissione e per dei grandi professionisti. Peccato, se posso aggiungere, anche per lui, il generale Dalla Chiesa.
Pavlov
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