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Domenica di settembre
Avvenimenti (gennaio 2006) – Leggete qui, calciofili che portate nel cuore il clima dello stadio che fu e che ancora è da qualche fortunata parte del mondo. Leggete ciò che testualmente il Calcio di rigore vi consegna. "Domenica di settembre. Temperatura estiva. Papà posteggia la Seicento bianca e corriamo verso la cancellata. La folla ci stringe da tutti i lati, non individuiamo nessun volto amico: solo schiene e pance, voci sconosciuti e rumori. Saliamo le rampe verso il secondo anello. Sono sempre più piccolo, più compresso, la sciarpetta coi colori rossoneri mi si attorciglia al collo come un cordone ombelicale. C’è un ultimo tratto, un corridoio soffocante come un utero, e io vorrei tanto tornare indietro, nella mia cara stanzetta, ma sono costretto ad avanzare. Papà mi stringe forte la mano, una spinta da dietro e all’improvviso – indescrivibile, sconfinato, meraviglioso – mi appare il grande prato verde, il campo di San Siro, infinitamente pulito in mezzo al caos. Neppure il mare è così grande, neppure le montagne sono così cariche di colore e di ossigeno, e i sogni non sono mai così chiari". Pensate, un "corridoio soffocante come un utero", zeppo di gente che spinge irresistibilmente verso un’uscita all’aperto, e lì, all’aperto, la scoperta del campo, l’incontro meraviglioso con lo stadio. L’arrivo sugli spalti che per un ragazzino diventa una specie di "parto paradossale, tutto maschile, un trapasso virile dall’ombra alla luce, dalla placenta paterna al mondo". "La ripetizione della nascita", uno "spalancamento" che obbliga di lì in avanti ad amare uno stadio e una squadra come si ama la vita, nella speranza di ritrovare e rinnovare ogni volta quell’"emozione festosa".
Mai avevo letto o udito una così suggestiva metafora della prima volta dello stadio, simile per forza evocativa alla prima volta di un bacio d’amore. Ma dopo che l’ho letta, mi sono accorto di condividerla, di avere vissuto anch’io qualcosa del genere la prima volta che sono andato a una partita di calcio. Era a Como, non a San Siro come nel brano che ho trascritto. Lo stupore del bambino, la scoperta del prato infinito, il fascino, perfino la paura, della folla in festa al gol; che riscoprii portando mio figlio piccolissimo alla partita e lui mi saltò in braccio gridando "ho paura" quando l’Inter pareggiò il gol del Cesena. Fa bene ogni tanto riandare all’origine, per restituire un senso più profondo alle nostre emozioni e alle nostre recenti idiosincrasie e nostalgie.
L’autore di questa stupenda metafora è Giovanni Colombo, presidente della "Rosa Bianca" e consigliere indipendente dei Ds al comune di Milano. L’ha piazzata in un libretto delizioso, Baciare il rospo (sottotitolo: L’impresa possibile di amare Milano), edizioni Città aperta, che è una vera miniera di idee per chi voglia affrontare la prossima campagna elettorale per strappare Milano al centrodestra dopo anni che appaiono un secolo.
Quanto al calcio, viene data al Cavaliere e al Duca (il primo sappiamo chi è; il secondo è Moratti) un’idea che suona così: un bello stadio circondato da parchi, piste ciclabili, spazi commerciali, e con una grande mediateca del calcio e dello sport. San Siro rifatto, insomma. E di proprietà delle due squadre per cento milioni di euro. Che il Comune dovrebbe girare in gran parte allo sport minore e alle squadre che danno pallone e felicità ogni settimana a migliaia di ragazzini. Poi dice che la politica non è più capace di utopie…
Pavlov
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