Cinque anni dopo. Non voglio più

(l’Unità – 8 aprile 2006) Premessa
(ovvero elogio del coglione): per avere più democrazia io, come tanti, sono
disposto a pagare. Svolgimento: il mondo è pieno di persone consapevoli che il
loro benessere non è fatto di cifre conteggiate qui e ora. E a volte nemmeno di
cifre, comunque calcolate. Certo, c’è anche il contrario. Abbiamo visto schiere
di commercianti osteggiare in ogni modo la creazione delle zone pedonali nei
centri storici, per paura di perdere i clienti; e poi arricchirsi proprio
grazie a quelle zone pedonali. Abbiamo visto comuni riluttanti a spendere in
cultura, considerata voce improduttiva; per poi scoprire che il comune accanto
si sviluppava economicamente proprio perché aveva investito in cultura. Abbiamo
visto amministrazioni consentire o addirittura promuovere la distruzione dei
propri tesori ambientali e paesaggistici. "Tanto i turisti vengono lo
stesso": e poi imprecare alla concorrenza del turismo internazionale.

E’ questa idealmente, almeno in parte, l’Italia che ha
applaudito la raffinata riflessione del capo del governo in Confcommercio. Un
popolo che misura vantaggi e svantaggi delle proprie scelte senza guardare al
di là del proprio naso. Che si sente imprenditore ed è in realtà conservatore
quanto e più di un impiegato del catasto. Che, attaccato ossessivamente ai
propri interessi, rischia – proprio per questo – di farli molto male. Che sente
come una minaccia ogni novità, ogni scostamento dalle abitudini, ogni investimento sulla qualità della società in
cui opera.

Davvero il metro di misura di ciò che conviene e non
conviene varia in ragione dell’intelligenza e dell’apertura mentale delle
persone. Mica per altro una letteratura sterminata ha ormai dimostrato che il
famoso homo economicus, perfetto e razionalissimo calcolatore di vantaggi e
svantaggi, è una scandalosa utopia dottrinale. L’uomo non è affatto razionale
economicamente. Nemmeno quando fa la spesa. Perché – a parte i limiti culturali
che gli inibiscono una scelta consapevole – ha affetti, valori, abitudini,
pigrizie, soprassalti di orgoglio, stanchezze, pulsioni a cambiare, che si
rimescolano continuamente. E allora a chi si rivolge Berlusconi quando invita
gli elettori a fare i propri interessi? Che corda solletica? Quale metro offre?
Un’aliquota fiscale? La mano leggera sugli evasori? O il debito pubblico del
paese? O la riduzione dei servizi pubblici? O le strategie internazionali? E
passando all’homo non economicus, per esempio quando si rivolge ai cattolici, a
quale interesse-valore fa riferimento? Ai sempre più soldi alle scuole private?
O alla dissoluzione di ogni radice spirituale nella società che egli costruisce
quotidianamente con i suoi messaggi?

Ecco, le radici spirituali. E’ questo il punto vero.
Perché fin qui abbiamo ricordato che l’uomo può guardare al proprio portafogli con occhio deformato: sicché
mentre cerca di gonfiarlo se lo alleggerisce. Ma il fatto è che l’uomo non è
solo il suo portafogli. E Berlusconi dovrebbe saperlo lui per primo. Se no non
si spiegherebbero quei milioni di persone che lo votano pur uscendo impoverite
dai cinque anni del suo governo. E che gli sono rimaste fedeli in base a
ragionamenti e valori (e pregiudizi) che prescindono totalmente dal proprio
tornaconto economico.

Sul versante opposto io farò esattamente come loro.
Ripudierò del tutto il principio del portafogli. E, pur convinto che il
progetto di economia e di fisco dell’Unione sia più solido e credibile per i
cittadini, dirò che in realtà al momento del voto ragionerò con tutt’altro
metro.
E penserò soprattutto a quello che ho visto in questi cinque anni. A
quello che non voglio vedere mai più. Io non voglio più un parlamento messo,
come un cameriere, al servizio dell’uomo più ricco e potente del paese. O al
servizio dei suoi amici, evasori fiscali dichiarati davanti ai giudici.
Non
voglio più le istituzioni della democrazia rappresentativa ridotte a un
simulacro, in cui i presenti non possono parlare e gli assenti possono votare.
Non voglio più vedere acclamare con l’aria di festa i bombardamenti prossimi
venturi su un paese straniero. Né voglio più vedere arrivare in aula una legge
che equipara le brigate nere di Salò ai combattenti delle forze armate e ai
partigiani.
Non voglio più vedere la nostra Costituzione nata dalla Liberazione
fatta a pezzi in allegria da gente senza storia. Non voglio più vedere il mio
paese sbeffeggiato all’estero per il suo capo del governo, né corna né pacche
sulle spalle né barzellette da caserma ai futuri ambasciatori. Amo l’Italia e
non voglio più vederla ridotta a fenomeno da baraccone sui quotidiani di tutto
il mondo. O il mio capo di governo che genera il sollazzo e il disprezzo di
quasi tutto il parlamento europeo.
Non voglio più avere un presidente del
consiglio che insulta i dissidenti e semina rancore e maleducazione.
Non voglio
vivere in un paese spaccato in due, oltre ogni tollerabilità, per puro calcolo
politico personale. Non voglio più vedere ogni discussione sepolta sotto
l’epiteto conclusivo di comunista. Non voglio più vedere le donne (compresa la
ministra Prestigiacomo…), sbeffeggiate e svillaneggiate in parlamento se
difendono i loro diritti. Non voglio più sentire insultare i magistrati come
una banda di delinquenti, o irridere nelle aule parlamentari anche al ricordo
dei loro (e nostri) martiri.

Non voglio più leggere su una relazione ufficiale
della Commissione antimafia che la mafia non porta voti. Né voglio più avere un
ministro della Repubblica che prima spiega che con la mafia bisogna conviverci
e poi va a commemorare Falcone (che scelse di non conviverci affatto) sul luogo
della strage. Non voglio ministri che saltano davanti al parlamento gridando
alla guida di duecento ragazzotti "chi non salta italiano è". Non
voglio vedere il parlamento che si impegna fino a notte solo per sfornare leggi
ad personam. O l’avvocato difensore del premier che fa leggi per salvarlo dai
processi in cui lo difende. Con il parlamento che prolunga la propria durata
per farle passare. Non voglio un senato che il giorno dopo l’apocalisse di New
York si prodiga a depenalizzare il falso in bilancio per "onorare con il nostro
lavoro i morti di New York". Non voglio più vedere scambiata pubblicamente
l’unità nazionale con gli interessi televisivi del premier. Non voglio più
subire questa ingiuria permanente alla storia e alla cultura del paese.

Io so che cosa chiedo a un governo. Ma so anche (e oggi
più che mai) che cosa non posso sopportare. Non per le mie tasche. Ma per il
mio decoro. Per il mio orgoglio di italiano. Per il mio diritto a una normale e
serena cittadinanza. Per amore della libertà. Per l’idea che ho della giustizia.
Per il senso delle istituzioni a cui sono stato allevato. Perciò, non per altro, voterò Prodi e
l’Unione.

P.S. Proprio per l’esperienza che mi sono fatto di
uomini e cose: spero che domani i funerali del piccolo Tommy non siano la sagra
dei grandi sciacalli, di chi dopo avere messo per cinque anni alcuni
personalissimi interessi giudiziari davanti ai problemi della giustizia ora
vorrebbe usare quei problemi per chiudere la campagna elettorale sulla bara di
quella creatura.
Che qualcuno (Ciampi, gli alleati, i consiglieri personali, le
tivù, la stampa) ci eviti questo scempio. Anzi, questa empietà.

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