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Cosa serve al centrosinistra
Dobbiamo uscire dallo stallo delle due Italie… Il partito democratico è l’occasione per voltare pagina
(l’Unità – 19 aprile 2006) Alzi la mano chi non ci ha pensato. Chi dopo la notte del batticuore, dopo le follie dei numeri che rimbalzavano peggio che in Italia-Germania 4-3, non ci ha rimuginato sopra: sulle cause profonde, sulle dannate ragioni di incomunicabilità del centrosinistra con questo sterminato, inossidabile elettorato che vota a destra. Che vota a destra "a prescindere".
Alzi la mano chi non si è chiesto che cosa si debba fare, dopo avere girato d’impeto per qualche ora il celebre epiteto berlusconiano al pensionato tanto per bene della casa di fronte o alla "sciura" ingioiellata che si incontra sempre in salumeria. Ebbene, quella stessa domanda – che bisogna fare? – deve accompagnarci nella nuova avventura di governo come un pungolo tonificante. Davvero metà degli italiani segue il Pifferaio Magico solo per pregiudizi anticomunisti, piccola antropologia molieriana o rimbambimento catodico? Davvero in quella metà del paese non c’è uno spiraglio, un trenta, venti, dieci per cento di ragionevolezza, un varco nel quale passare migliorando la nostra proposta? E’ amara, terribilmente amara (e vera) la riflessione che ha fatto Giorgio Bocca riandando ai partigiani di Giustizia e Libertà che tornano dalle montagne pensando di trovare in Cuneo la loro roccaforte e che, dopo avere combattuto per ridare a tutti la libertà, si vedono sopraffatti dal ventre molle della città alle prime elezioni democratiche. C’è del vero in questo malinconico filone che reinterpreta la storia d’Italia (ma forse dell’umanità) come un costante trionfo del "particulare" sulla generosità ideale. In molti l’abbiamo fatto nostro la notte di lunedì.
Ora però abbiamo il dovere di voltare pagina. Ora è il momento di scacciare l’incubo civile, culturale, di un’Italia su cui sventola la bandiera della volgarità e del rancore. E’ questa la grandiosa opera di ricostruzione che il centrosinistra dovrà compiere, ancora più immane del risanamento finanziario. Ma per riuscirci occorre da subito sapere tenere la bussola su quella domanda e cogliere tutti i passaggi da compiere. Capire quel che serve al centrosinistra. Per dargli la forza di attrazione necessaria verso l’elettorato diffidente che pencola a destra; ma anche – non dimentichiamolo mai – quella capacità di rigenerazione della politica che il nostro elettorato per primo richiede.
La discussione sul partito democratico va collocata esattamente in questo punto del ragionamento. Va cioè incastonata in un progetto strategico che riguarda l’Italia e la politica, la celebre questione posta da Bobbio (siamo un paese "naturaliter" di destra?), il rapporto tra la generalissima idea di "sinistra" e gli strati profondi del sentimento popolare. Guai a farla galleggiare, questa discussione, solo sulla intuizione che "con l’Ulivo si prendono più voti"; un’ intuizione fra l’altro faticosamente affermatasi (come dimenticare le facce storte dopo le europee per qualche zero-virgola in meno del previsto?..). E nemmeno la si può imbalsamare nell’estenuante verbosità sulle grandi famiglie politiche europee, nel culto ossessivo di questi antenati che ci avrebbero chiusi in casa loro a doppia mandata invece di prepararci (come fa ogni genitore con i suoi figli) a prendere il volo da soli. Il partito democratico va pensato nell’Italia di oggi, nel mondo di oggi. Va inteso come il grande soggetto riformatore in grado di includere le molte culture che si sono ritrovate, susseguite e intrecciate in questi decenni (diciamo dal ’68 in poi?) nell’ambizione di pensare a una democrazia estesa e partecipe, capace al tempo stesso di premiare meriti e talenti e di proteggere gli ultimi. Di esaltare, insieme, il valore del mercato e il valore dello Stato. Di assumere ogni patrimonio personale di valori e di esperienze dentro un movimento storico di progresso civile e culturale. Il partito democratico come il luogo in cui sfocia, quasi fosse un fiume, il portato enorme di energie e idee accumulatesi per decenni nello svolgimento della nostra vita politica. Energie indisponibili a riconoscersi, anche per questioni anagrafiche, nelle tradizioni del maggiori partiti della storia repubblicana. Di donne e uomini che non sono eredi né dell’ideologia comunista disfatta dall’89 né della storia democristiana affondata nel terremoto politico dei primi anni novanta. Di coloro che non ritengono l’Ulivo la realizzazione postuma del "compromesso storico", ma il nuovo luogo in cui si sono ritrovate più generazioni di cittadini democratici per costruire le idee e le parole della politica del futuro. Generazioni che si definiscono ancora rievocando Sturzo e De Gasperi, Nenni e Togliatti, Gramsci e Gobetti, ma soprattutto generazioni che mescolano e portano creativamente nel loro zaino Kennedy e Mandela, madre Teresa di Calcutta e don Milani, Martin Luther King e Falcone e Borsellino, Havel e Chico Mendes; insomma tutto quel che testimonia le buone battaglie compiute dalla parte migliore dell’umanità.
E’ questa sua natura composita e non dottrinaria, non recintata, che può attrarre nel partito democratico ciò che esita a entrare nell’impresa politica del centrosinistra. E che può dargli ascolto presso strati e ceti non sordi, non egoisti, ma pieni di dubbi e diffidenze verso la storia (lo so, ricca di glorie e di sacrifici) dei partiti che ora stanno nella coalizione di governo. O verso la loro genealogia e simbologia. Un osservatore inglese ha sottolineato recentemente un curioso dato di realtà: che mentre il partito laburista non ha mai cambiato il suo nome ma ha cambiato i gruppi dirigenti, la sinistra italiana ha cambiato tanti nomi ma non ha cambiato sostanzialmente i propri gruppi dirigenti. Ecco, il partito democratico, se non sarà -come non può e non deve essere- la somma di due partiti, rappresenterà l’occasione per mettere la parola fine alla girandola dei nomi e dei simboli che hanno tempestato la transizione infinita della seconda Repubblica nel campo del centrosinistra; e l’occasione per iniziare a rinsanguare (anche nelle culture, nel linguaggio, nei metodi, nelle relazioni con la società) i gruppi dirigenti progressisti del paese. Per scacciare l’incubo di un’Italia su cui sventola la bandiera della volgarità e del rancore, non basterà certo un nuovo partito. Ma per riuscire nell’opera immane, il nuovo partito -"questo" nuovo partito- sarà necessario. Grande a sufficienza per dare garanzie sulla stabilità e la forza di un’alleanza. Fresco a sufficienza per non avere alle sue spalle altre immagini se non quelle nobili di chi ha contribuito in modo decisivo a fare e difendere la democrazia. Aperto e coraggioso a sufficienza per non perdere una sola parola ragionevole che venga da un cittadino di destra o di sinistra.
Il partito democratico è il grande soggetto che, dietro il governo Prodi, può compiere il miracolo tanto atteso. Quello di un partito che non sia più la prosecuzione di altro. Ma l’avvio aperto di una formidabile, originale, unitaria esperienza politica nell’Italia finalmente post-berlusconiana.
Pavlov
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