Grazie Zio. Album (non ingiallito) di famiglia

Non ne avrei scritto. Ma ho avuto un po’ di telefonate dopo che è apparsa la notizia su “Repubblica”. E allora lo faccio. Mio zio Romeo, quello a cui avevo dedicato un post qualche settimana fa, se ne è andato. Era il fratello minore di mio padre. Gli devo molto. Non solo i classici bei ricordi d’infanzia. Ma anche insegnamenti. Anche esempi. Anche aiuto nei momenti difficili. Fu lui, che conosceva le democrazie scandinave e quella americana, a dire a me quindicenne che i comunisti non mangiavano i bambini e che, per quanto il suo orizzonte estremo fosse la socialdemocrazia, non potevano essere messi sullo stesso piano dei fascisti.

Fu lui a convincermi a studiare alla Bocconi. Sosteneva, negli anni sessanta, che in realtà la vera scuola economica del futuro avrebbe integrato economia e ingegneria. Mi sembrava una follia. Ora lo stanno facendo. Mi ammonì, in piena contestazione, che il marxismo non faceva i conti con la natura dell’uomo, che prima di tutto bisogna conoscere la psicologia umana, la quale alla fine conta più delle classi. Mi mandò per un po’ di mesi a Londra nell’ufficio studi di una merchant bank perché, dopo la laurea, vedessi anche un mondo non surriscaldato come quello italiano.

Quando uccisero mio padre arrivò a Palermo la notte stessa, prima di me. Lo volle vedere. Poi però gli vietarono di entrare nella casa, era proibito per ragioni giudiziarie. Non lo vietarono però a Bruno Contrada, che chissà perché ci potè andare senza il giudice (scusa ufficiale: prendere le lenzuola per coprire i corpi). Il mattino dopo -certo, non  avrebbe potuto farlo- approfittando dello sbandamento generale si portò via il diario di mio padre dalla prefettura. Lo demmo poi, dopo molti mesi, a Giovanni Falcone. Fu preziosissimo per le indagini. Chissà che uso ne avrebbero fatto, altrimenti. Quando il procuratore capo Paino gli disse spazientito che non aveva voglia di giocarsi le sue ferie per quel delitto, lui gli si mise in piedi per quant’era alto e gli ruggì: “vorrà dire la sua coscienza”. Era presidente del Banco di Roma, feudo andreottiano, quando arrivò il maxiprocesso. Non si tirò indietro, testimoniò e ci sostenne nelle nostre denunce (Andreotti per il diario di mio padre rischiò una incriminazione per reticenza o falsa testimonianza, non ricordo bene).

Poi l’ho avuto sempre vicino. Perfino al Mantova Musica Festival, quando tutti -Ferrara in testa- scommettevano su un suo (e mio) penoso fallimento. Volle esserci, venne da solo in treno da Roma, ormai ottantenne, e mi disse “E’ la cosa più bella che hai fatto”. E’ rimasto lucido fino alla fine, anche nel dolore fisico. Quando gli ho ricordato le cose che vi ho detto, mi ha guardato e mi ha chiesto ironicamente “E io ti ho detto tutte queste cose?”. Ha sperato di sopravvivere fino al 9 aprile per potere votare per Prodi. Per “ridare dignità a questo paese”, il paese che lui aveva servito all’estero per decenni in ogni continente e in più ruoli, dalla Banca d’Italia alla Banca Europea degli Investimenti.

Giovedì scorso soffriva troppo e si è rifiutato di ricevermi. Dopo nemmeno due giorni se ne è andato. Lo so, sono cose che forse non interessano nessuno. Ma se non le scrivo sul mio Blog dove le scrivo?

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