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La condanna di Previti. Quel che è di Cesare
(l’Unità, 6 maggio 2006) – Tanto rumore per nulla. Certo, si potrebbe anche commentare così, con una beffarda scrollata di spalle, la condanna definitiva di Cesare Previti a sei anni di carcere per la vicenda Imi-Sir, per quello che è stato definito il più gigantesco caso di corruzione giudiziaria nella storia della Repubblica.
Un parlamento portato ripetutamente al limite dell’infarto, una legislazione vergognosa e gravida di implicazioni per lo stato della sicurezza e per il decoro della giustizia, un accumulo inedito di tensioni tra i poteri dello Stato, mercanteggiamenti politici ad alto rischio, lo snaturamento del comune senso civico (e del pudore) di una parte del paese. E altro, molto altro ancora. Che non si ha qui il tempo di ricordare ma che varrà la pena esaminare e soppesare in sede più propriamente storico-scientifica. Tutto inutile. Cesare Previti, socio e amico del cuore di Silvio Berlusconi padrone dell’Italia d’inizio millennio, è stato infine processato e condannato. Cesare Previti, quello del “simul stabunt simul cadent”, è caduto da solo, pur se – questo è vero – il suo socio e amico non sta nemmeno lui più tanto bene, così che la condanna suona simbolico sigillo su un’epoca che ha sconvolto le istituzioni repubblicane.
E tuttavia quel che è accaduto non è stato per nulla. Il principio dell’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge è stato infatti l’epicentro di uno dei più intensi movimenti di opinione degli ultimi decenni, dimostrando di essere, nonostante tutto, ben radicato nella coscienza democratica nazionale. Non per nulla la sua patente aggressione è stata la molla che ha rilanciato con vigore l’opposizione sociale e parlamentare dopo lo choc della vittoria berlusconiana del 2001. Intorno a questo principio, ossia all’articolo 3 della Costituzione, abbiamo assistito a un estenuante braccio di ferro tra due coalizioni anomale: un’alleanza soggettiva tra potere politico della maggioranza e sistema televisivo (non dimentichiamo mai il Previti che accusa i suoi giudici da Vespa…) e un’alleanza oggettiva tra la minoranza parlamentare, l’opinione pubblica indipendente e tutti gli istituti di garanzia costituzionale. Di là chi, in nome di alcune cause giudiziarie, voleva ricondurre all’obbedienza il parlamento prima e poi, attraverso le leggi, la magistratura, tenendo sotto pressione costante la Corte Costituzionale e il Presidente della Repubblica. Di qua chi, in nome della Costituzione, si è battuto perché l’oltraggio al diritto non si consumasse, o venisse arginato. Andrà scritta la storia di questo braccio di ferro che ha visto, da una parte e dall’altra, una pluralità di protagonisti in parlamento, nei tribunali, nelle istituzioni di garanzia, nella stampa e nei movimenti civili. Andrà scritta perché è, alla fine, la storia di una Repubblica aggredita dagli eletti del popolo e che risponde all’aggressione con le armi che le mette a disposizione la celebre Costituzione “sovietica”. E’ il trionfo postumo della sapienza e della preveggenza dei padri costituenti, che non si limitarono a restituire lo scettro al popolo ma si ingegnarono di definire un complesso schema di equilibri all’interno del quale il potere nato dal libero voto avrebbe dovuto esercitarsi. Volendo semplificare, proprio sui processi che non si dovevano fare si è giocato lo scontro tra l’idea di una dittatura della maggioranza e l’idea di una democrazia costituzionale.
E’ stato un lungo, aspro scontro che la condanna della Cassazione oggi non svuota affatto di significato. Perché c’è davvero da dubitare che senza l’impegno e la capacità di resistenza dell’opposizione (a volte più intensa e compatta, altre volte più delegata a pochi) il processo avrebbe avuto il suo corso. C’è da dubitare che in un clima di maggiore rassegnazione (quella che tanti osservatori “terzi” avrebbero gradito) tutti gli istituti di garanzia avrebbero tenuto, pur nella bufera di accuse e manovre destabilizzanti, di rimozioni e punizioni che arrivavano là dove era possibile. Nessuno, sia ben chiaro, chiedeva “la condanna”, tanto meno esemplare. Nessuno voleva lo scalpo giudiziario. Tutti chiedevano però che non si umiliasse l’ irrinunciabile principio repubblicano che le regole valgono per tutti.
E infine non è stato inutile quel che è accaduto perché, come si è accennato, ci ha davvero consegnato una più forte consapevolezza della qualità dell’architettura costituzionale proprio mentre altri si applicavano a smantellare la Carta suprema come fosse un meccano per bambini capricciosi. Anche per questo sarà bene che chi dovrà indirizzare le grandi scelte istituzionali del Paese parta da questa lezione di storia (di storia patria, si può dire?) prima di far balenare rimaneggiamenti e nuovi dialoghi volti ad “accomodare” le regole a esigenze inconfessabili.
Certo, va aggiunto, se inutile non è stata la sofferenza alla quale abbiamo partecipato e reagito, inutile è stato invece l’impegno ossessivo che una parte politica ha messo nel suo progetto obiettivamente eversivo. Non le è servito, quell’impegno, a consolidare il potere conquistato e schiacciare o spolpare (progressivamente, s’intende) l’abicì della democrazia costituzionale. Non le è servito a dare l’impunità a uno dei suoi esponenti di maggiore spicco e forza che ora, con poca gratitudine, lamenta (con che significato?) di essere stato “lasciato solo”. Quella parte ha logorato con i suoi comportamenti un intero sistema politico (e forse un paese) senza ottenere la posta ambita. Come chi, sperando nel ricco bottino, porta via dalla casa della vittima designata qualcosa che per il malvivente non ha alcun valore ma che per la vittima ha un valore inestimabile. Ora da questo stato di logoramento bisogna ripartire. Per riassestare, ricucire, rassicurare, rafforzare le nostre istituzioni. Con un auspicio: che nelle nostre scelte quotidiane abbiamo sempre presente che se possiamo dedicarci a questa ricostruzione istituzionale e morale del Paese lo dobbiamo solo a ventiquattromila voti. Ecco, questo non dimentichiamolo mai.
Nando
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