Grazie a Ciampi, saggio timoniere

(l’Unità, 11 maggio 2006) – E festa sia. Si spediscano dunque telegrammi e felicitazioni al gentiluomo Giorgio Napolitano. Ma sia anche il momento della gratitudine. Onore a Carlo Azeglio Ciampi che se ne va e che chiude un settennato difficile come pochi.

Un pezzo di storia patria in cui i rapporti tra le istituzioni sono stati terremotati come neanche ai tempi delle Brigate Rosse, che di corsa avrebbero messo la firma sotto i livelli di destabilizzazione dello Stato raggiunti nell’ultimo quinquennio.

E’ giusto che a ringraziare sia soprattutto chi, come me, nel ’99 si alzò in piedi alla Camera ritmando il nome del nuovo presidente e gustando la bellezza di un capo dello Stato proveniente dal partito d’Azione, ma poi, due anni dopo, si interrogò criticamente sul senso di quella gioia mentre esplodevano le polemiche sulle leggi ad personam. Avevano preso una rincorsa forsennata, quelle leggi, già all’inizio della nuova legislatura. E venivano votate a raffica da un parlamento dove nessuna regola sembrava più valere di fronte alla volontà della maggioranza politica. In tanti ci chiedevamo chi potesse in quel clima di assoluto arbitrio mettere un freno al dispotismo degli imputati eccellenti. E sempre la speranza prendeva il nome di Ciampi. Sempre le sconfitte parlamentari si stemperavano per qualche giorno immaginando l’arrivo di un deus ex machina, una divinità buona, il custode della Costituzione, che cancellasse quelle leggi. Rifiutandosi di firmarle. Benché quell’agognato rifiuto, come poi si è visto, di fronte a tanta prepotenza altro non potesse ottenere che la loro tempestiva riedizione da parte di Camere a maggioranza blindata.

Proprio così. “Speriamo che Ciampi non firmi” è stato per un anno e mezzo l’ingenuo esorcismo di un’opposizione civile incredula davanti alle sconvolgenti novità del ciclo berlusconiano. Il Presidente però, prima che alle singole leggi, pensava a come garantire l’equilibrio possibile, nelle condizioni date (condizioni proibitive e sconosciute alla nostra democrazia), a un sistema istituzionale che avrebbe dovuto comunque reggere per almeno cinque anni. E si è fatto carico in silenzio di una serie infinita di fattori di instabilità e di logoramento del tessuto istituzionale: dalla cultura eversiva del premier alla sua possibilità di mettere con uno schioccar di dita un potentissimo apparato televisivo ed editoriale al servizio di ogni propria causa, senza scrupolo alcuno. Uno scenario che si sarebbe realizzato con il celebre proclama di Berlusconi a reti unificate contro i giudici della Cassazione, colpevoli di non avere applicato il principio del legittimo sospetto (ossia la legge Cirami) secondo i superiori desideri del suo amico e socio Cesare Previti.

Onore, oggi, alla saggezza del presidente che se ne va. Che a volte ha instaurato prassi in sé discutibili (come la contrattazione preventiva di alcuni delicatissimi testi di legge) rese però necessarie dal particolarissimo momento storico: sempre con l’intento di evitare che fossero le supreme istituzioni a finire sotto i colpi d’ariete della maggioranza unta dal voto popolare. Un presidente che a volte -si deve presumere con tormento, forse anche con rabbia-  ha scelto di non rinviare alle Camere per una seconda volta leggi come quella sull’ordinamento giudiziario, ritoccate, dopo il suo messaggio, con nuove norme incostituzionali. Che pazientemente ogni volta ha valutato il pro e il contro di ogni gesto, anche correndo il rischio di incomprensioni, avendo davanti a sé solo quella bussola, la Repubblica e la sua Costituzione, in una logica complessiva di “tenuta del sistema”. Un presidente che per amore del paese ha anche saputo subire in silenzio il fare irrispettoso di alcuni suoi interlocutori (come quella volta che il presidente del Consiglio gli diede ad alta voce del tu presso un pubblico né intimo né particolarmente qualificato). Che ha accettato un dileggio oggettivo e ripetuto le tante volte che i suoi richiami, anche solenni e argomentati, sono stati liquidati dai destinatari con dichiarazioni di assenso e di sostegno che suonavano ogni volta più beffarde. E che in molti momenti ha saputo alzare la voce erigendo barriere alla prepotenza tanto più solide quanto più accreditate dalla sua immagine super partes tanto difficilmente (e amaramente) conquistata.

Onore a chi ha completato definitivamente il lungo percorso avviato da Pertini e da Scalfaro per ridare un valore non retorico e nostalgico all’idea di patria. E lo ha fatto nella condizione più ostica. Quella di un paese quasi consegnato “chiavi in mano” a un presidente straniero e in cui un partito della maggioranza reclamava la devolution quando stava in doppiopetto e la secessione da “los italianos” quando stava in camicia verde. Compito difficile, tremendo, quello di dare senso alla storia e alle tradizioni, dal Risorgimento alla Resistenza, con una maggioranza che nasceva in larghissima parte fuori da quelle tradizioni, e guidata da un capo del governo che platealmente disertava il giorno dell’evento fondativo della nostra democrazia, il 25 aprile.

Grazie a Carlo Azeglio Ciampi, ancora, per avere difeso la laicità dello Stato senza nulla concedere al laicismo, per avere difeso il valore della scuola pubblica e dell’indipendenza della magistratura.

E soprattutto grazie per come se ne è andato. Rifiutando di candidarsi ancora e contrapponendo a ogni convenienza politica contingente il senso della sua magistratura. Rammentando che, se pur utile sul piano politico, la sua ricandidatura avrebbe introdotto degli elementi di monarchia nel nostro ordinamento repubblicano. Intuendo (diciamolo: anche spiacendo a noi dell’Unione) che un’investitura di Prodi da parte del suo successore sarebbe stata un elemento di maggiore serenità istituzionale. Con lui ringraziamo Franca Ciampi, presente e mai invadente, che con la sua fulminea e indimenticabile invettiva contro la “tivù deficiente” ha disegnato quasi un programma di governo.

Non so se la nuova legislatura vedrà davvero accordi per mettere a punto riforme costituzionali. Ma una cosa su tutte l’esperienza di Ciampi ce l’insegna, a futura memoria. Il presidente della Repubblica, esattamente come lo vollero i costituenti, sia un garante, nient’altro che un garante. Anzi, il supremo garante. Un paese come questo, sempre gravido di avventure, non può permettersi di farne a meno. Al nuovo garante l’augurio più grande.

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