Ricordando Falcone

Domani è il 23 maggio. Quattordici anni fa morivano Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e i tre agenti di scorta Rocco Di Cillo, Antonio Montinaro, Vito Schifani. Voglio ricordarli con un pezzo che scrissi per l’Unità del 23 maggio 2002.


Perché farlo? Se non ora, quando? La vita dei coraggiosi, degli uomini coerenti, si muove tra interrogativi come questi. Il coraggio prende spesso la forma di una domanda senza risposta. Altre volte (o insieme) si esprime nell’impossibilità di rispondere se non con un’ altra domanda. Sempre i coraggiosi camminano tra la speranza e il pessimismo. Incoraggiando chi li frequenta e inghiottendo umiliazioni e amarezze in proprio.
Giovanni Falcone è stato uno degli uomini che più ha rappresentato la straordinaria complessità del coraggio. Che vi ha incorporato l’intelligenza, la prudenza, il disincanto. Rileggere la sua vicenda significa rileggere la società italiana, e non solo quella degli anni ottanta o dei primi anni novanta. Ma è anche una terribile incursione nei territori della solitudine, delle grandi scelte esistenziali, della cultura quotidiana, delle complicità innocenti, della meschinità che si fa tragedia.
La lotta di Falcone non è stata solo lotta contro la mafia, contro quel nemico di cui aveva capito praticamente tutto e che egli insegnò a capire e a combattere a generazioni di investigatori, di studiosi, di cittadini. E’ stata lotta contro la politica e le sue leggi, contro l’informazione, non solo quella siciliana, ma anche (e come!) quella che nasceva nella lontana Milano. E’ stata lotta contro i pregiudizi culturali e professionali interni alla magistratura, di ogni coloritura ideologica. Lotta contro una società civile assuefatta e riluttante al cambiamento. E’ stata lotta silente, di chi rischia per tutti ed è perennemente sotto accusa. Di chi lottando con intelligenza conquista notorietà e popolarità e scopre che anche questo diventa ragione di ulteriori diffidenze, sarcasmi e veleni. 

Che scopre, mentre si batte per i valori da tutti formalmente condivisi, di avere intorno a sé un mondo ostile, quello che su lui e Borsellino, non sui ciarlatani di Stato, costruisce la figura del professionista dell’antimafia (sì, ministro La Loggia, la storia non si può cambiare: l’articolo di Sciascia sul "Corriere" faceva esplicitamente un nome solo, proprio quello di Paolo Borsellino…).

Il popolo che oggi celebra il decennale, le istituzioni che oggi ringraziano e onorano, dimenticano – tra polemiche sgraziate e poco rispettose – che la vita di un uomo coraggioso diventato eroe fu lotta e mortificazione permanenti. Non sotto una dittatura; ma in democrazia, spesso al cospetto dei protagonisti attuali della democrazia. I giornalisti che lo insultavano (lui membro di una Cupola più pericolosa di quella mafiosa, il magistrato buono al massimo per fare il sociologo, il giudice-sceriffo, ecc.), i proprietari dei giornali che lo crocifiggevano (ora al governo), gli avvocati che lo denigravano al maxiprocesso (anche loro oggi al governo), i colleghi invidiosi nel ruolo dei "Giuda", per usare l’espressione di Paolo Borsellino (a loro volta ora in Cassazione). Ma il fatto, il fatto più doloroso, è che quasi nessuno può dirsi innocente davanti alla vicenda di Giovanni Falcone. Perché le malignità andavano e venivano, assumevano le forme più disparate. Doveva superare sempre prove nuove, nel giudizio occhiuto e intransigente anche dei suoi sostenitori, di noi sostenitori, per certificare che lui, in un mondo di trasformisti e di venduti, non era né trasformista né venduto.

Chissà quante volte dovette usare o misurarsi con quegli interrogativi. Perché farlo, in fondo? E se non ora, quando? Uomo dello Stato che agiva a volte, con il suo grappolo di amici magistrati, come "libero professionista" della giustizia, ossia senza che il suo Stato ci fosse. Perché da Palermo sembrava assente anche quando il ministro era una persona onesta, anche quando i giudici di trincea non venivano puniti o perseguitati. Per chi farlo? Per Palermo che lo temeva e in gran parte lo odiava, o nei cui quartieri popolari i ragazzini mimavano la scena del suo futuro assassinio? Per la Sicilia che regalava alla mafia il merito di dar lavoro ai bisognosi e faceva quadrato (sinistra inclusa) intorno ai cavalieri del lavoro di Catania sui quali lui chiedeva ostinatamente informazioni? Per l’Italia che celebrava i fasti della corruzione e già andava all’assalto dei magistrati a colpi di referendum o nella quale, magari a un dibattito a Pavia nell’aprile del ’92, poteva capitare di sentirsi chiedere "perché noi contribuenti dobbiamo pagare la scorta a Falcone"? Per la magistratura che ne bocciava le legittime ambizioni nel proprio organo di autogoverno o che non lo considerava all’altezza di rappresentarla in quello stesso organo di autogoverno? Davvero i suoi successi, la stima di tanti, valevano questa lotta impari con il mondo in cui viveva?

Molti ricordi mi legano a questa persona. Ricordi di nostalgia, di gratitudine, sensi di colpa per avere più volte taciuto quando alcuni miei amici lo misero sotto accusa. Li terrò tutti per me oggi che (giustamente) i ricordi abbondano. Tranne uno: una telefonata fatta in un pomeriggio di inizio ’90, alcuni mesi dopo il fallito attentato dell’Addaura. Gli chiesi come stesse. Mi rispose con tre parole che mi gelarono il sangue. E che non ho più dimenticato: "mi stanno seviziando". Non disse "ostacolando". Non "umiliando". E neppure "massacrando". Seviziando. Come fanno i torturatori. Perché era troppo colpevole, quasi per definizione, ogni giorno e per ogni ragione, il magistrato a cui (unito nel ricordo al collega "professionista dell’antimafia") verrà oggi dedicato un francobollo.

Io non so dire, dieci anni dopo, per chi o per che cosa lui abbia fatto tutto questo. Immagino l’impasto: il senso del dovere, l’amore per la Sicilia, l’orgoglio che prende tutti quando la sfida si fa gigantesca, l’onore del nome, la dignità, la lealtà a valori e ideali senza misura. Ho visto altre persone tormentate come lui nella solitudine prima di morire. E da una, a mia domanda, sentii rispondere "Certe cose si fanno per potere guardare serenamente negli occhi i propri figli e i figli dei propri figli". Falcone non aveva figli. E ho letto che non volle averne per non lasciarli orfani, certo com’era del conto che prima o poi Cosa nostra gli avrebbe presentato.

E’ giusto allora, se davvero si vuol capire, capire fino in fondo, che oggi ognuno di noi lo ricordi così: mentre, nelle istituzioni che lui difende accettando ogni rischio, lo "seviziano". Che ci chiediamo, ognuno con la nostra sensibilità, perché lo ha fatto, perché non si è tirato indietro, perché è andato avanti. Forse, come tocca quasi sempre dire ai coraggiosi, avrà spiegato a molti: "Se non ora, quando?". E in effetti: quando raccogliere il massimo delle energie mentali e spirituali, quando affrontare le sevizie, se non quando tutti i migliori uomini dello Stato vengono tirati giù come birilli dalla mafia, per essere subito dimenticati o vilipesi?

Il mistero del coraggio. Il mistero delle persone che il destino porta a fare il loro dovere nei luoghi dove il Bene e il Male (qui sì!) si affrontano senza mediazioni e infingimenti. Questo evoca la vicenda del giudice che ridiede onore alla Sicilia proprio negli anni in cui (chi lo ricorda?) una delle ricette più propagandate per combattere la mafia era quella di mandare in Sicilia magistrati non siciliani. Lui immagine vivida e sfocata, lui voce alta e flebile di un’isola dove continua la saga dei potenti, dei viceré arroganti, dei privilegi pretesi a colpi di minacce. Dove le scorte tolte ai suoi colleghi ruotano ora, vedi le stranezze, proprio intorno ai politici nemici degli status-symbol.

Per chi e perché davvero lo facesse, se valesse la pena di farlo, Giovanni Falcone forse nel suo intimo non se lo è mai davvero chiesto. Certo è che oggi, pensando a lui e alla sua storia struggente, possiamo solo riandare al celebre aforisma di Brecht. E dire forte che se è beato il popolo che non ha bisogno di eroi, disperato è quel popolo che quando ha bisogno di eroi non li trova.

Quando diceva: “Mi stanno seviziando…" – l’Unità, 23 maggio 2002

Leave a Reply

Next ArticleRagazzi di strada. Ovvero: come si può vincere