Questo sito non utilizza alcun cookie di profilazione. Sono utilizzati cookie di terze parti per il monitoraggio degli accessi e la visualizzazione di video. Per saperne di più e leggere come disabilitarne l'uso, consulta l'informativa estesa sull'uso dei cookie.AccettoLeggi di più
Ricordate il maxiprocesso?
(Diario, 19 maggio 2006) – Vent’anni dopo, i ricordi di chi c’era. E un bilancio: non negativo. Anche se c’è ancora molta strada da percorrere, per bloccare lo "sterminio di verità"
Un’aula grande, grandissima. Come mai se ne erano viste nella storia della giustizia italiana. Un’architettura vagamente spaziale, come nelle figurine degli anni cinquanta. Con tonalità verdi. Costruita alla velocità della luce. E contro cui si era indirizzato il sarcasmo del “Giornale di Sicilia”, presso il quale contavano ottimi uffici non solo Salvo Lima e i cugini Salvo ma anche Michele Greco detto “il papa”.
Soldi buttati via e rubati all’occupazione, si motteggiava, un po’ come le celebri “braccia rubate all’agricoltura” dei cretini in colletto bianco. Ricordo il primo giorno. Una pletora di reporter, di telecamere, di taccuini provenienti da tutto il mondo, da cui nacque l’etichetta spregiativa della giustizia-spettacolo contro la quale, inopinatamente, si scagliò lo stesso cardinale Salvatore Pappalardo. Un’attenzione spasmodica, che avrebbe dovuto essere incoraggiata a continuare, andare oltre la febbre del primo giorno. E che invece si fece di tutto per spegnere. Perché, lo avreste mai detto?, “la giustizia è una cosa seria”.
Ricordo il povero presidente, Antonio Giordano, che veniva dal processo civile e che diede la sua disponibilità a guidare il più immane dei processi penali dopo che altri otto si erano tirati indietro con ogni motivo. Era un signore bassino, dalla voce leggermente in falsetto. Il contrario, all’apparenza, del leone, del guerriero senza paura. Eppure a lui la storia d’Italia deve molto, moltissimo, tanto da poterlo annoverare tra i propri eroi civili, se tali non sono solo coloro che perdono la vita per averla troppo rischiata. E ricordo quella scritta che m’offese, m’indignò, passando per l’inferriata che circondava l’aula. Su un ingresso stava scritto “avvocati”, e va bene. Su un altro “pubblico”, e d’accordo. Sul mio ingresso stava scritto invece “imputati e parti civili”. Eravamo la stessa cosa, in fondo, vittime e carnefici, anche per il processo più organizzato e più moderno. Categoria mista, fascio di persone e di vite da tenere insieme, gomito a gomito, a dispetto di sentimenti feriti e di inconciliabilità di stati d’animo davanti alla giustizia. E poi le gabbie, quelle gabbie mai viste, in sequenza semicircolare, con dentro grappoli di esseri umani. Quattrocentosessanta, mi sembra, in totale. Al lordo dei latitanti. “Perché li tengono come allo zoo?” mi chiese mio figlio di sette anni assai stupito dopo avere visto la prima giornata in televisione. Uno spettacolo che colpiva, in effetti; e che venne usato per delegittimare la sostanza di quanto andava accadendo di grandioso nei rapporti tra Stato e mafia. Fu passando lo sguardo su quelle gabbie zeppe di killer e di capi sanguinari che capii per la prima volta quanto fosse abissalmente lontana, irraggiungibile l’idea che avevo di giustizia. E che me ne faccio di questi in gabbia?, pensai a lungo con la malinconia che mi cresceva dentro. Potranno mai essere loro, rinchiusi lì dentro, a restituirmi mio padre?
Eppure quella parvenza di giustizia che mi si presentava allora così amara e insoddisfacente, era il frutto di sforzi inauditi, di Falcone e Borsellino andati come latitanti (loro, mica Totò Riina) a scrivere l’ordinanza di rinvio a giudizio all’Asinara, di polemiche durissime sostenute dagli uomini migliori del governo (Martinazzoli, alla Giustizia) contro l’opinione pubblica filomafiosa e la prima baldanzosa fila degli avvocati difensori. Gli avvocati. Ricordo, tra gli altri, l’avvocato Mormino, che sarebbe poi diventato vicepresidente della Commissione Giustizia con l’ultima legislatura berlusconiana. E ricordo Gaetano Pecorella, incontrato sull’aereo mentre, con un paio di jeans addosso, volava con me da Milano a Palermo. A difendere un imputato di mafia. Pecorella a Palermo?, mi capitò di chiedermi con meraviglia, da ex militante del Movimento studentesco che conservava altri ricordi sulle propensioni professionali del futuro presidente della stessa Commissione Giustizia in cui Mormino avrebbe fatto da vice. Vedi un po’ i destini come si incrociano, come si dipartono… Ricordo anche i nostri, di avvocati. Alfredo Galasso in testa. Ma anche, perché non ricordarlo?, Alfredo Biondi che fece fino in fondo il suo dovere anche nel momento in cui bisognava accertare le responsabilità di Andreotti. Dovemmo chiamarne molti di avvocati da fuori Palermo, con qualche sovraccarico di spesa, perché quelli palermitani erano stati quasi tutti precettati, e a parcelle assai competitive, dagli imputati di mafia. D’altronde in quel mondo così lontano non usava ancora sporcarsi l’immagine con la difesa delle vittime. Il lavoro, in fondo, lo dava la mafia. Il costituirsi parte civile era una assoluta rarità. Una bizzarria, praticamente. Ecco, proprio da questo si può forse partire per tracciare qualche differenza tra che cosa c’era allora e che cosa c’è adesso. Troppe volte, in effetti, si fa largo la tendenza a dire che “in fondo non è cambiato niente”. Meglio dunque usare il “metodo Borsellino”. Quello di cui parla Rita Borsellino a Livio Colombo nel suo recente libro Nata il 19 luglio: Paolo, ricorda Rita, quando accadeva qualcosa di brutto la prendeva alla lontana; e iniziava a fare i confronti con il mondo in cui era cresciuto lui per dare un senso alla storia, al suo difficile cammino. Proviamo perciò a farlo anche noi.
1) La mafia non esiste. Ora questa frase non la si dice più. Allora sì. Solo qualche anno prima aveva giurato solennemente sull’assenza della “malefica tabe” (così l’aveva chiamata) un sindaco di Palermo che si chiamava Nello Martellucci. Aveva le sue varianti, quella frase. La mafia è un’invenzione dei comunisti (sempre loro…). La mafia è un’invenzione dei giornali del nord. La mafia vera (che dunque esiste…) è a Roma. La mafia vera è a Zurigo. Oppure ancora: la mafia l’hanno portata quelli del nord. Oggi siamo tutti d’accordo, e tranne Dell’Utri nessuno esita a riconoscerlo: la mafia c’è. Non si deduce solo dall’esistenza dell’antimafia. C’è e si vede. Al massimo (vedi Lunardi) si discute se ci si debba convivere o meno. Non è una differenza da poco. E’ costato scontri culturali, politici, civili. E’ costato carriere. Forse, anche, qualche vita.
2) La mafia è buona. Perchè sostituisce lo Stato che non c’è e perché dà lavoro agli affamati. Spesso perfettamente interscambiabile con la precedente, la frase riassumeva un’ideologia formidabile, una cultura secolare. Smantellarla (sia pure non del tutto) ha impegnato il meglio della cultura civile del paese. Purtroppo, fra l’altro, la mafia stessa ha proceduto a smentirla a colpi di dimostrazioni cruente. Ha spiegato brutalmente che è proprio lei a non volere lo Stato. Vedi le uccisioni in serie degli uomini più leali e democratici delle istituzioni. Vedi (ma questo lo sanno solo i cittadini più informati) il trattamento riservato dai capi di Cosa Nostra a Giulio Andreotti quando lamentava con loro l’assassinio di Piersanti Mattarella, presidente della Regione animato da intenti antimafiosi: onorevole stai buono, gli dissero a brutto muso. La Sicilia è cosa nostra. Qui comandiamo noi.
3) Parte civile non sta bene. All’epoca, come detto, era assai raro che qualche familiare di vittima si costituisse parte civile nei processi. Meglio un dignitoso silenzio. Ah, che compostezza, ah che decoro, ammonivano in quel caso politici e opinionisti. Cultura diffusa che aleggiava come una minaccia per gli eventuali ribelli anche nelle redazioni del nord. Forse va ricordato che il giorno di apertura del maxiprocesso il “Giornale” di Milano riservò il suo editoriale non a interpretare il bisogno di una giustizia finalmente coraggiosa ma a intimare il silenzio agli “orfani”. E invece in quel caso furono in molti a non volersi chiudere nel loro dolore. Di più. Per la prima volta, le parti civili ebbero il sostegno economico di migliaia di cittadini, anche (lo ricordo con commozione, rivedendo le immagini delle assemblee con loro) dei nostri emigrati in Germania. Da lì, da quel grande gesto spontaneo e collettivo di solidarietà è nata una legislazione di sostegno delle parti civili sia per le spese processuali sia per gli aiuti occupazionali a mogli e figli delle vittime. Ancora: al maxiprocesso si presentò per la prima volta a chiedere giustizia non un familiare di un poliziotto o di un giudice, ma la mamma di un giovane mafioso. Fu il primo sfondamento vero nel muro dell’omertà. Si chiamava Vita Rugnetta. Anche lei, lei che imbracciava la foto del figlio, dovrà essere ricordata tra i protagonisti più grandi della lotta alla mafia.
4) Pentiti. Ci furono, vennero fuori. Come auspicato prima di morire, nell’incredulità generale, dal prefetto dalla Chiesa (“mica sono come i terroristi, non si possono tradire fra parenti”, gli sogghignavano contro i sapienti delle istituzioni). Come ottenuto grazie alla sua credibilità personale da Falcone con Tommaso Buscetta. E’ stata una stagione importantissima, per quanto appannata da qualche svista professionale. La legge per incoraggiarli, è vero, è passata grazie alle stragi di Capaci e via D’Amelio. E l’ultimo decennio ha registrato una vigorosa spinta a ricacciarli nel silenzio e nelle delegittimazione. Ma la figura ha resistito. Mai dimenticare che per metterli a tacere sono stati commessi decine e decine di omicidi di vendetta “trasversale”. E sono state scritte tonnellate di carta stampata. Senza riuscire a eliminarli.
5) Impunità. Ci passa un oceano, rispetto ad allora. Il mafioso sapeva che non avrebbe mai pagato il conto di quello che faceva. C’era il giudice fifone, c’era il giudice “avvicinabile” (ossia corruttibile) ed era pure molto numerosa la razza che Falcone temeva di più, quella dei giudici cretini. Morale: pochi avversari, delegittimabili e comunque sottoposti – alla fine – al vaglio implacabile della giurisprudenza della Cassazione. Dove magari c’era sempre lo stesso giudice a fare e disfare le sentenze di mafia per un intero Paese. Mettici la possibilità di fare trasferire senza rumore il funzionario o l’ufficiale scomodo, di fare assegnare un giudice a quella mansione o di non fargliela avere, e il quadro è completo. Il carcere era possibile. Ma era provvisorio per definizione. Anzi, era una medaglia da apporre sulla carriera. E in ogni caso in carcere si comandava. Dopo la lunga e complessa vicenda del maxiprocesso i mafiosi hanno invece dovuto scoprire (definitivamente) che in carcere ci possono finire a vita. Da qui la loro reazione impazzita del ’92 e del ’93. E, grazie al 41 bis, ossia al carcere duro, anch’esso passato dopo le stragi del ’92, hanno pure dovuto scoprire che in carcere possono non comandare. Che possono perfino essere ridotti all’impotenza assoluta. Ovviamente le pressioni a tornare indietro da questa situazione rivoluzionaria sono state esperite in tutte le direzioni. E sempre trovando buoni interlocutori politici. Le strade suggerite? La revisione dei processi in base ai nuovi principi del garantismo europeo, l’abolizione dell’ergastolo, l’ammorbidimento del carcere duro o la sua neutralizzazione per via amministrativa (di nuovo, anche qui: bastano giudici fifoni, avvicinabili o cretini). Ma il dado è tratto. Forse anche per questo tra i celebri pizzini di Provenzano ne è stato trovato uno in cui si lamenta la crisi delle vocazioni: i picciotti disposti ad arruolarsi sono meno di prima.
6) Andreotti. All’epoca era chiamato “il divino Giulio”. Ora anche, d’accordo. Ma allora era praticamente impensabile accostare seriamente il suo nome alla mafia. Aveva avuto il coraggio di farlo solo Sergio Turone in un suo libro, Corrotti e corruttori. Dall’unità d’Italia a oggi. Poi lo avevo fatto io scrivendo la vicenda di mio padre su Delitto imperfetto. E solo la mia condizione di figlio mi aveva dato la voglia e la forza di farlo. Anche perché, proprio da figlio, avevo ascoltato parole e soprattutto avevo letto parole di pietra sul diario di mio padre. Anzi, macché pietra, macigni. Il libro era uscito nell’autunno del ’94. Prima in Francia; per molte ragioni, non ultime quelle di sicurezza. Poi in Italia, pubblicato -grazie a xxxxxBollati e Corrado Stajano- da Mondatori. Aveva provocato attenzione e qualche sbigottimento in tutto il mondo ma la Rai lo aveva totalmente censurato, senza eccezione di reti. Come senza eccezione di reti venne censurata la mia deposizione al maxiprocesso. Fatto sta che in quell’aula di giustizia vennero portati molti degli argomenti e delle informazioni che avevo raccolto su Delitto imperfetto. Andreotti, sentito in proposito come testimone a Roma (si era avvalso di un privilegio dei ministri per non presentarsi nell’aula bunker) rischiò l’incriminazione per testimonianza falsa o reticente.
Passarono altri sette anni e per Andreotti giunse il primo avviso di garanzia per concorso esterno in associazione mafiosa. Da lì una vicenda processuale, politica, culturale, interminabile. Che ha un suo punto fermo nella sentenza finale della Cassazione: l’ accusa di avere commesso il reato di associazione a delinquere con i mafiosi (almeno) fine alla primavera del 1980. E che ha un suo punto altrettanto fermo e simmetrico: la volontà della classe politica nel suo insieme di rinnegare, occultare, dimenticare quella sentenza; e di praticare, per usare l’efficace espressione di Giancarlo Caselli, uno “sterminio della verità”.
Durerà a lungo la lotta tra verità e menzogna. Ma non siamo certo più al 1986. Anche in questo caso la diga è stata rotta. E non era facile, su questo posso rilasciare testimonianze precise e concordanti. Intorno molto è successo, anche negli anni della Grande Quiete. Latitanti presi a grappoli, i prodotti alimentari di Libera, la crisi di vocazioni, i ragazzi di “Addio pizzo”. Davvero se vogliamo capire se in tutti questi anni abbiamo fatto o no qualcosa di utile, non facciamoci prendere dall’impazienza. Usiamo il metodo Borsellino.
admin
Next ArticleFrancesco Saverio Cincinnato