RADICALI E RIFORMISTI. Festival di Mantova, il ritmo della sinistra che stupisce

(l’Unità, 7 giugno 2006) – Santa Musica salvaci tu! Salvaci da questo sproloquio e da questo cicaleccio petulante che ci sta arrivando addosso ancora una volta. Io riformista, tu radicale. Tu massimalista, io moderno. E viceversa.


Milano non è solo l’epicentro del berlusconismo. Ma è anche (che ci sia qualche rapporto?) l’epicentro di questo carteggio buffo dove le parole volano in libertà, dove analisti e professori pestano sempre gli stessi termini, dove lo spirito che si vorrebbe laico forma gli Assoluti e li contrappone con ossessione manichea. Davvero le sconfitte sono come dei vasi di Pandora che liberano biblioteche di banalità e onde di incontinenze verbali.


Che c’entra la musica? C’entra. E vorrei spiegare perché. Altrimenti questa disputa infinita su chi è capace di costruire innovazione e chi non lo è resta una pura tenzone tra adoratori di totem semantici. Nulla di meglio, dunque, che partire da un caso concreto. Anzi, da un caso  esemplare. La settimana scorsa si è conclusa la terza edizione del Mantova Musica Festival. Un festival che sta ormai diventando a detta di tutti, spettatori e artisti, il più bel festival della musica in Italia. Un trionfo di pubblico, una qualità di offerta artistica che si rintraccia difficilmente in altre occasioni, un clima umano e culturale che è una specie di oasi mentale nel mondo dello spettacolo. Ebbene, alcuni lettori dell’Unità ricorderanno probabilmente come nacque questo festival poco più di due anni fa. Da un gesto di insubordinazione verso il sistema mediatico e di valori dominante. Più precisamente verso la scelta di Raiuno di affidare la direzione artistica del festival di Sanremo a Tony Renis, beniamino estivo dell’allora capo del governo ma soprattutto amico dichiarato di fior di boss mafiosi. Poteva la televisione di Stato offrire la propria immagine – e nel proprio programma più celebre e simbolico – a quel direttore artistico? Chi aveva una idiosincrasia esistenziale per la mafia pensò di no. Pensò che sarebbe stato un affronto a tanti che con la mafia non ci convivono e non vi vogliono avere né amici né simpatizzanti. E che per questo qualche volta ci lasciano la vita. Tutto ciò fu detto; e di ciò vennero documentate (specie su queste pagine) le ragioni. Di fronte alla tracotante indifferenza di Raiuno, venne alla fine lanciata la sfida: allora faremo un altro festival. Negli stessi giorni. In un’altra città. La lanciammo in pochi, quella sfida (dall’Unità Lidia Ravera e io). La raccolsero in molti, circa quattrocento artisti, comici, intellettuali, che si misero, di fatto, contro il formidabile connubio Rai-governo e contro le minacce di censura verso chi avesse sfidato il tabù di Sanremo. Ci si indebitò, e di molto, per trasmettere le cinque serate su una tivù privata. Si raccolsero fondi a sostegno da parte del pubblico, e anche qui questo quotidiano ebbe un ruolo fondamentale.

Quale gesto più radicale (che i soliti poveri di spirito definirono “giustizialista”)? Quale ribellione più frontale che andare oltre il mugugno e metter su dall’oggi al domani un altro festival? In tanti pronosticarono che sarebbe stata una noia mortale (ah, questa sinistra noiosa e bacchettona…), che sarebbe stato un fallimento, che il sottoscritto ci si sarebbe rotto le ossa. Era un’utopia, in effetti. E in decine e decine di persone strinsero i denti perché quel gesto radicale avesse successo. Il fatto è che quel gesto radicale si incontrò con una amministrazione riformista, quella del Comune di Mantova, a guida Ds, che destinava il 10 per cento del suo bilancio alla cultura. E che, anche sull’onda del festival della letteratura, intuì le potenzialità di quel progetto. E con il Comune venne la Provincia, a guida Margherita. Fu un successo. Un economista e uomo d’impresa come Marco Vitale venne a Mantova a battezzare l’evento. E spiegò che l’economia lombarda doveva puntare sull’innovazione. E che l’innovazione aveva sia la faccia delle nuove tecnologie siderurgiche sia quella del festival della musica mantovana.

Si mossero così altri ambienti istituzionali ed economici intorno a quella che era sembrata un’impresa disperata. Il festival, che aveva scoperto le sue potenzialità già nel corso della prima edizione, si svincolò dalla data di Sanremo, puntò sul periodo di fine primavera e costruì il modello del “tutto all’aperto”, ospitando nuovi generi musicali senza perdere la sua linfa di sensibilità civile. Quest’anno ha completato la sua trasformazione. E ha toccato livelli inediti di fascino e bellezza, esplorando lungo il tema fissato (“Italia, Italie”) le musiche che attraversano oggi il nostro territorio ma anche quelle che hanno segnato la nostra storia nell’ultimo mezzo secolo. Che cosa di più “riformista” e innovativo è possibile immaginare nel campo dell’arte e della cultura? Si è creata una cosa che prima non c’era. E in due anni la si è portata ai vertici del suo settore. Non per profitto individuale ma grazie a un modello di imprenditorialità collettiva che si misura con il fare assai più che con il dire. E che ha funzionato sia grazie al rischio di capitali propri sia grazie a contributi di solidarietà civile sia a contributi di enti e fondazioni pubblici. Con l’aiuto di una banca (la Banca Agricola Mantovana) che smentisce la teoria secondo la quale non avrebbero più senso le banche a forte vocazione locale. Grazie a questa innovazione, oggi, giungono e si fanno conoscere a Mantova decine e decine di talenti sconosciuti, perfino quelli liberi da procuratori,  che si mescolano in assoluta naturalezza con i talenti più prestigiosi. In questo contesto le formule artistiche cambiano. E si affinano nuovi schemi culturali. Di più: da quell’antimafia che spesso evoca lutti e ricorrenze è nata una straordinaria cinque giorni di gioia collettiva.

Insomma si è realizzata un’operazione che tante amministrazioni o agenzie private di gran fama non sono riuscite a concepire. Nata da un gesto di sfida, da una assoluta radicalità; e sostenuta da un giornale bollato spesso come il “giornale del no”, della “protesta fine a se stessa”. Un’operazione passata nella sua realizzazione per le mani di sagaci amministratori e di sognatori di un mondo diverso, in una fusione di abilità, capacità, competenze che alla fine ha dato un risultato di sicuro valore economico e culturale. All’ultima Borsa internazionale del turismo Mantova si è potuta infatti presentare come la città dei festival e ha ora allo studio scelte economiche che mai sarebbero state concepite al di fuori di questa prospettiva.

Domanda: che senso ha allora continuare a contrapporre (per pura necessità di lucrare rendite di posizione da una parte o dall’altra) radicalità e riformismo? La verità è che c’è la radicalità inconcludente e puramente ideologica esattamente come c’è un riformismo di carta che serve agli ignavi per giustificare la loro riluttanza a prendere posizione soprattutto sulle questioni di etica pubblica. Bisogna diffidare dell’una e dell’altro. Anzi, arrivati al momento del governo che è tipicamente il momento del fare (meglio se armati di cuore e di pensiero), occorre indicare i due fenomeni come i due pericoli opposti e contrari da cui guardarsi. E i loro alfieri come le peggiori sirene possibili del cambiamento prossimo venturo. I riformatori creano, non si limitano a discettare. E osano il difficile, “stupiscono”, per usare il verbo suggestivo evocato da Prodi. E assumono anche, come i riformisti mantovani, perfino la radicalità delle domande etiche per produrre innovazione economica e culturale. Ma quanti sono quelli che lo capiscono in questa Unione malata di parole senz’anima? Di etichette di contrabbando, buone solo per passare le dogane più pigre?

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