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Milano, come stai cambiando
(Europa, 28 giugno 2006) – A Milano ha vinto il “no”. Come in altre città del nord. Ma in controtendenza rispetto alla Lombardia, che con il Veneto forma il più ricco e dinamico bacino d’utenza della (sempre meno) premiata ditta Bossi-Berlusconi. Nella Lombardia europea, teatro di piccole imprese ma anche primo polo universitario e biomedico del paese, ha vinto il sì. Uniche due eccezioni: la piccola Mantova che spende il suo dieci per cento di bilancio in cultura; la grande Milano che cerca faticosamente di uscire dalla sua lunga crisi di identità: moderna e provinciale, tanto volontariato e tanto “padroni in casa nostra”.
Ha vinto la Costituzione nella città medaglia d’oro della Resistenza. E questo consente almeno di non sfregiare, davanti agli albi e alla storia, la memoria di intere generazioni. Permette di tenere in bacheca con orgoglio il discorso di Calamandrei agli studenti milanesi del ’55. Anche se non solo di memoria si tratta. Perché il no segna uno spartiacque anche tra ieri e domani. La città, soprattutto la città, mette fuori la testa. E tutti capiscono alfine, con evidenza palmare, che nella capitale lombarda non c’è la morta gora dipinta con voluttà da alcuni protagonisti del dibattito da Milano o su Milano. Chi ha visto come un progresso l’accorciamento delle distanze tra i due schieramenti alle ultime amministrative ora ha un motivo in più per cogliere la qualità del fenomeno in corso: il mutamento di personalità di una città che per troppo tempo ha subito l’egemonia della cultura brianzola della fabbrichetta, scorgendovi la via d’uscita -in campo economico e politico- dalla propria crisi esistenziale.
Milano, la Milano dei servizi avanzati, può applaudire la Moratti. Ma ha smesso di seguire ciecamente le follie della destra pedemontana e brianzola. Può farsi trascinare al voto da Berlusconi, alle politiche come alle comunali. Ma non al prezzo di gettare alle ortiche il suo buon senso, né i valori costituzionali. E’ finita una luna di miele ideologica. Certo, la partecipazione al voto è stata più bassa che alle amministrative, assai più bassa che alle politiche. Certo, alcuni forzieri del voto berlusconiano non sono stati aperti, se ne sono rimasti ben chiusi sotto la cappa del caldo e dell’indifferenza. Certo la Compagnia delle Opere, per quel che se ne sa, ha scelto di stare a guardare. Mentre la Curia è scesa in campo per difendere il valore dell’unità e dell’eguaglianza degli italiani. Tutto questo è vero. Eppure…Eppure la controtendenza rispetto alla Lombardia c’è. E indica un movimento, uno spostamento in corso. E’ il frutto di una maturazione di fatti e giudizi nuovi. Ma è il frutto, anche, del lavoro svolto in questi anni, pur con limiti e difetti, da una pluralità di soggetti della politica milanese e di associazioni e gruppi esterni ai partiti. Nelle scuole e nei quartieri, nei mondi vitali e nelle strutture connettive del nuovo terziario. Che ha collegato i ceti medi riflessivi e capaci di mobilitarsi sulle regole con i ceti professionali vogliosi di standard europei più che di standard regionali. Il Palavobis con i convegni scientifici, insomma. Un lavoro che si è rivolto a una parte dei ceti popolari (ne resta fuori l’immenso “forziere” degli anziani) e alle nuove generazioni cresciute nella diffidenza se non nella ilarità verso il verbo berlusconiano.
Sarebbe onesto sapere vedere i segni di questa ripresa in una lunga successione di fatti: la vittoria di Penati alla Provincia (sia pure, anche lì, con la congiuntura favorevole di un avversario diviso), la vittoria di Zaccaria nel collegio che era stato di Bossi, il molto terreno recuperato alle regionali con Sarfatti, la riduzione di distanze nel duello Moratti-Ferrante, con la conquista del primo consiglio di zona dopo tredici anni (la zona 9, più di Bergamo, il doppio di Varese). Certo, un percorso lungo. Ma, come ha felicemente scritto Giovanni Bianchi, in troppi guardano da anni alla competizione politica milanese come a una Milano-Sanremo anziché come a una faticosa corsa a tappe. Ebbene, il 26giugno è una nuova tappa di questa corsa. E, come tutti hanno capito, ne è per ora la più brillante. E non arriva per caso. Saltarvi sopra per sostenere che essa dimostra, al contrario, che ormai a Milano si gioca in casa e per deplorare che una vittoria certa (con Veronesi candidato d’oro) sia stata buttata via lo scorso mese, è, oltre che ingeneroso, perfino patetico. Assomiglia molto alle recriminazioni di chi (ricordate?) nel ’70 giurava che avremmo potuto battere il Brasile di Pelè e compagni se nel secondo tempo della celebre finale avesse giocato Rivera invece di Mazzola. Forse sarebbe meglio se finalmente si prendesse atto -pur nella perdurante faticosità della competizione- dei progressi compiuti, della controtendenza innescata. Invece di restare la capitale del berlusconismo-bossismo, Milano può davvero diventare la capitale della nuova Lombardia. E ristabilire l’egemonia della cultura urbana, della razionalità scientifica. A questa Milano, a questa Lombardia il governo Prodi deve imparare a parlare. Non scimmiottando il linguaggio dei leghisti, ma offrendo il cocktail migliore possibile di serietà e di competenza, di semplicità e di inventiva.
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