Questo sito non utilizza alcun cookie di profilazione. Sono utilizzati cookie di terze parti per il monitoraggio degli accessi e la visualizzazione di video. Per saperne di più e leggere come disabilitarne l'uso, consulta l'informativa estesa sull'uso dei cookie.AccettoLeggi di più
Il profumo dei voti
(L’unità, 30 giugno 2006) – Il delitto Fortugno. Il caso Crea. Le polemiche su Loiero. I ragazzi di Locri. Riesplode la questione (mai risolta e sempre controversa) dei rapporti tra politica e mafia. Più precisamente: delle zone grigie in cui la politica finisce per certe sue regole con l’assaporare il retrogusto delle relazioni mafiose. Partiamo da una verità storica assoluta: la mafia porta voti. Lo sappiamo da sempre. Solo l’ultima Commissione antimafia ha avuto l’impudenza di scrivere (o lasciar scrivere) sulla sua relazione finale che questo è null’altro che un tenacissimo luogo comune. Il guaio è che queste (indiscusse) relazioni pericolose sono sempre esistite “prima”, “una volta”, “anni fa”. Sul momento sembra che non ci siano mai. Il guaio, ancora, è che i partiti sanno sempre, almeno a spanne, chi stanno candidando. E se vedono le relazioni pericolose nello schieramento avversario, quando sono essi a subirne il fascino perverso provvedono immediatamente a rimuoverle. Il tale invischiato nelle trame di Cosa Nostra? Legato alla ‘Ndrangheta o alla camorra? Ma no, sono dicerie. Ha fatto da padrino di battesimo al figlio del boss? Ha fatto il testimone di nozze a quell’altro? Sua moglie è in società con il cugino di quel pregiudicato per fare affari con la Regione? Ci sono intercettazioni telefoniche che parlano da sole? Ma che dite? Sono cose vecchie. Non c’è uno straccio di prova. A chiunque può capitare di farsi una foto con uno sconosciuto (verissimo). Mica si possono fare le analisi del sangue ai candidati. Basta con il giustizialismo.
Rimuovere, rimuovere, rimuovere. Per stare in pace con se stessi mentre si prendono voti che odorano di mafia. Anche se -bisogna ammetterlo- a furia di praticare gli ambienti l’odore si avverte sempre meno. Così arriva il momento in cui imbarchi persone su cui la mafia ha puntato le sue carte. Perché colluse o perché deboli o perché poco intelligenti (ah, quell’intuizione di Falcone…). In ogni caso “avvicinabili”. Con quel retrogusto che un politico avveduto e onesto avverte subito. La mafia porta voti. E’ vero: nel centrosinistra questa verità suona come denuncia critica verso i comportamenti dell’avversario; mai come principio ispiratore di proprie strategie elettorali. Purtroppo ogni tanto ha fatto capolino un principio strategico non molto dissimile: quello secondo cui “l’antimafia fa perdere voti”. Proprio perché un’azione energica contro la criminalità organizzata scoraggia l’avvicinarsi di mondi e interessi che, con perfetto pragmatismo, non disdegnerebbero affatto di assecondare il vento della storia o della contingenza e passare nello schieramento opposto al loro. E’ la variante mortale del trasformismo. I mondi, gli interessi, traslocano. Entrano in uno schema più conveniente di redistribuzione delle risorse della politica. Totò Cuffaro oggi indicato come il simbolo della politica più indigeribile non fu forse assessore di rilievo in una giunta regionale di centrosinistra? Chi lo ospitò che calcoli politici fece? Pensò che portasse voti? Si limitò a prendere cinicamente atto della disponibilità del di lui partito a stare in una alleanza “progressista”, per poi attenersi al ferreo principio che in casa d’altri non si guarda?
Qui giunge il problema che ci viene sbattuto in faccia dal delitto Fortugno. Che in casa d’altri (e in casa propria!) si ha invece il dovere di guardare. Domenico Crea, che esibisce al telefono rapporti così intimi con il presunto mandante dell’omicidio, venne candidato (per ora così ci viene detto) perché proveniente da una formazione “di mezzo”, Democrazia Europea. La quale, in quanto nuova alleata, poteva condizionare il proprio patto elettorale alla scelta autonoma dei candidati da fare confluire nella Margherita. Come dire di no? Come sognarsi anche solo di sindacare quella o altre scelte? L’alleanza porta voti. E sui voti, in democrazia, costruisci le vittorie. E sui voti, in politica, costruisci le tue fortune di partito. Perché rinunciarvi? E perché, poi, crearsi inutili e costose inimicizie per rinunciarvi? E in nome di che? Per apparire gli sceriffi della questione morale? Tutto ineccepibile, almeno in nome di queste piccole e ferree regole.
Finché viene fuori il ferro delle pistole. E si ammazza. Con il retrogusto di casa tua. E per fortuna proprio in casa tua sta il cuore della rivolta a questo costume. I ragazzi di Locri, sono loro il cuore della rivolta. Giovani legati a Fortugno anche affettivamente. Sono loro che scombinano gli schemi dell’assuefazione. Dei morti di cui nessuno parla. Dei medici uccisi in serie come prezzo sconvolgente a una sanità criminogena. I ragazzi di Locri sono la scintilla che brucia in un attimo il telone più opaco. Quello steso su un sistema dove i voti si prendono ovunque e comunque perché non gli si può mica fare le analisi del sangue. Dopo la loro denuncia nessuno può voltarsi dall’altra parte. E giustamente Francesco Rutelli li indica a tutta Italia, con i loro volti puliti, come simbolo di un’altra Italia.
Ora però non c’è altra scelta possibile. Si riparta da loro. Al centro di tutto ci stanno loro e il loro retrogusto (finalmente) di libertà. Che emanano quando manifestano, quando ridono, quando cantano, con le loro semplici e variopinte fogge adolescenziali. I dibattiti tra le correnti, le accuse reciproche, la gara imbarazzante a dire chi è stato a candidare Domenico Crea, a permettere a una cosca di vederlo come il proprio ambasciatore nelle istituzioni regionali, diventano materia inconcludente se non si chiede con chiarezza a loro, ai ragazzi di Locri, quale Margherita e soprattutto quale politica vogliono. Quali sono le regole in base alle quali è lecito vincere e costruire le proprie fortune politiche. Ci metteranno dell’ingenuità. Ci racconteranno il loro libro dei sogni. Forse chiederanno la luna. Anche quello che la politica non può dare e forse non potrà mai dare. Ma meglio, cento volte meglio, assumere il loro punto di vista come quello a cui apportare correttivi, meglio far digerire loro un po’ di realismo politico e impegnarsi in questa opera ingrata da cinici zii. Meglio così che dovere presentarsi a un boss per spiegargli che purtroppo è stato eletto un candidato meno accomodante. O doversi recare da lui con l’aria contrita per spiegargli, come fosse il proprio padrone, che quel finanziamento o quell’autorizzazione non sono poi così certi. Perché c’è quel cretino che si oppone. O quel moralista che non se ne dà per vinto. Per vedersi, dopo qualche settimana, il cretino o il moralista stesi a terra in un agguato.
Fu su queste pagine che, subito dopo l’audizione di Cuffaro in Commissione antimafia a Palermo nella primavera del 2004, invitai l’Ulivo, tutto l’Ulivo, a stare attento alle proprie candidature alle elezioni europee. La vicenda calabrese spiega ancora una volta che la campana suona per tutti. Non forse con la stessa intensità. Ma suona per tutti. La candidatura è la massima responsabilità che compete ai partiti. E, a Locri come a Milano, battersi per la loro trasparenza non può essere affidato -in virtù di calcoli o pigrizie personali- a pochi isolati intransigenti disposti a esporsi per tutti. Nelle candidature c’è il rispetto per gli elettori. C’è la lealtà verso le istituzioni e verso il proprio paese. C’è perfino l’amore (quello vero) per il proprio partito. C’è il senso della politica. Della politica che non deve avere paura dei magistrati.
admin
Next ArticleTrovarsi con Er Pecora in Abruzzo...