L’Italia mondiale

(l’Unità, 6 luglio 2006) – E tre! Al terzo successo mondiale dell’Italia contro la Germania qualche parallelo tra le nazionali azzurre e i tempi dei loro (e nostri) trionfi si può anche fare. Certo, il primo trionfo, quello storico del 4-3, è stato raccontato e sviscerato in molte forme. Si trattò di un evento  spartiacque.


E senza il contesto esterno – politico, sociale, culturale – la sarabanda di gol degli ultimi trentuno minuti (recupero più supplementari) non sarebbe mai diventato quel grandioso fatto di costume e di psicologia collettiva che diventò. Meno raccontato è stato il 3-1 dei mondiali di Spagna. Meno emozionante sul campo, nonostante il rigore fallito da Cabrini. Ma traguardo emotivo di una striscia di giorni entusiasmante, sublimata nell’urlo di Tardelli, anch’esso visto e rivisto con nostalgia crescente e una goduria mai doma.
Se nel ’70 l’Italia dei conflitti aspri e insaziabili si riunì una notte intorno al tricolore (non solo) calcistico per celebrare la fine del suo complesso d’inferiorità verso i tedeschi, nell’82 avemmo l’Italia con gli occhi asciutti e sofferenti che scoprì la felicità immensa di non andare in piazza  per seguire funerali o sostenere manifestazioni contro il terrorismo. Il volto sorridente di Pertini accanto a Juan Carlos fu l’esatto contrario del volto rabbuiato e triste, severo e ostinato, visto per anni interminabili in decine e decine di telegiornali accanto alle bare tricolori. Il suo celebre labiale dalla tribuna, “non ce n’è per nessuno”, fu l’esatto contrario del suo mutismo a Bologna dopo la strage della Stazione. L’Italia delle grandi crisi industriali, della P2, degli scandali finanziari, trovò nei mondiali spagnoli l’occasione per gioire per strada. Aveva imparato dodici anni prima come si faceva e lo rifece. Con più organizzazione, con più esperienza e, a sinistra, con qualche scrupolo in più sul piano politico: “Viva l’Italia di Rossi e di Cabrini, no all’Italia di Spadolini” fu l’alibi per giustificare quella esibizione di gioia mentre si era ancora in fondo al tunnel. Non ce lo siamo mai chiesto. Ma chissà se gli anni ottanta diventarono gli anni dell’edonismo e della felicità spensierata proprio a partire da quell’estate, che chiudeva una stagione di angosce e quasi ribattezzava il paese.

E ora, dopo la nuova notte della gioia, che Italia abbiamo davanti? Si può parlare di un paese che inconsciamente riscopre il piacere dell’ottimismo proprio quando a Roma non c’è più il governo che aveva fatto dell’ottimismo la sua ossessiva bandiera? Perché la festa, quella, c’è stata. E che festa! Centinaia di migliaia di persone a cercare un coro in cui riconoscersi, a compiacersi del contatto fisico diffuso, a sventolare il tricolore  finalmente amico  rilanciato da Ciampi.Una marea di giovani riversata in piazza con addosso una voglia incontenibile di passare la notte insieme, e tanti immigrati a fare il tifo per gli azzurri come se fossero vissuti sempre in Italia. Certo, succede sempre qualcosa del genere -e ovunque- quando una nazionale vince un mondiale. Ma appunto: “qualcosa del genere”. Non esattamente quello che è accaduto da noi, con tutte le sfumature che l’osservatore ha potuto cogliere. Non c’era nessun senso di colpa in chi festeggiava. Nulla di sé o della propria memoria da rimuovere o da imbrigliare per fare posto alla gioia. Dichiarata, sfrontata, attesa. E sì che non sono stati anni senza ombre. Ombre che tutti hanno percepito nonostante l’overdose di ottimismo di maniera iniettato via antenna nel corpo sociale. Ombre, anzi, che hanno fatto a pezzi la credibilità proprio del giocattolo più prezioso, del grande sogno degli adolescenti, del fatto più nazionalpopolare della nostra vita: il mondo del calcio.

E’ come se nelle piazze l’altra notte avesse fatto irruzione la parte più giovane del paese per fornire inconsciamente una sua nuova carta d’identità. L’orgoglio. E il piacere dell’orgoglio. L’Italia che, nonostante i suoi eroi veri, è ancora costretta a presentarsi all’estero come un fenomeno da baraccone, con la nomea dell’imbroglio e della furbizia da quartierino appiccicata sulla pelle impietosamente. Che dalla spassosa e umiliante performance di Berlusconi al parlamento europeo (proprio contro un tedesco…) allo scandalo del calcio con cui arriva fresca fresca in Germania non riesce strapparsi di dosso una maledizione che tanti giovani, indipendentemente dalle loro preferenze politiche, soffrono come ingiusta e immeritata, si tratti dei nostri ricercatori all’estero o dei ragazzi calabresi. L’orgoglio di una vittoria al di sopra di ogni sospetto, perché ottenuta sul campo ostile dei padroni di casa in un torneo dove è storia scientificamente provata che i padroni di casa vengano avvantaggiati fino al limite estremo del possibile, e a volte anche oltre quel limite. L’orgoglio di non essere sempre indietro nella competizione internazionale. Non c’è, nella festa di oggi, il panem et circenses. C’è qualcosa che, una volta ancora, mette invece nei “circenses” una dimensione culturale che ne modifica il senso. Che semplificato è questo. La nostra squadra ha vinto una prova difficile in modo pulito. Noi non siamo tutti Moggi, noi non siamo tutti De Santis. Come non siamo pastasciutta e mafia, per riandare a una celebre copertina tedesca che ribadiva la nostra maledizione. Non solo. Ma anche quelli che nel mondo di Moggi ci sono stati, ci si sono arricchiti e hanno taciuto, in questo nuovo clima creato da Guido Rossi e da chi l’ha voluto lì a ridare dignità al calcio, anche quelli appaiono trasfigurati, dicono cose sagge e sensate e umili là dove fino a un mese fa le loro parole ancora insolentivano le orecchie e l’intelligenza del tifoso sempre più esangue e disgustato. L’orgoglio per il cambiamento di chi ci rappresenta. Dall’arroganza alla modestia, dalla spavalderia degli impuniti allo spirito di sacrificio di chi si sente responsabile di qualcosa di grande. Come Bearzot, dopo il calcio scommesse, rifece un gruppo a sua immagine e somiglianza, così Guido Rossi ha dato la cifra del nuovo calcio possibile con poche scelte chiare e inequivocabili. In fondo c’è qualcosa di simbolico anche negli autori dei due gol che ci hanno portato in paradiso. Grosso e Del Piero. Il terzino di quel “blocco” del Palermo operaio  che con coraggio Lippi ha portato e tenuto in nazionale. L’attaccante umiliato tante volte dallo stesso Capello che oggi lascia la nave che affonda e vola verso il Real Madrid.

Una ventata di orgoglio, il senso sfumato di una diversità possibile, la voglia di liberarsi da una maledizione sentita come iniqua. La percezione che “si può”, che se cambia il clima si può. Si può non essere né furbi né fallosi e vincere. Diciamolo: tutti a parodiare l’avvocato Peppino Prisco quando diceva che la cosa più bella sarebbe stata battere il Milan all’ultimo minuto su autogol. Ce lo siamo augurati in tanti, l’altro ieri sera, davanti alla Germania, sentendo il pubblico tedesco fischiare il nostro inno. E invece ora non rinunceremmo mai a quel che è successo: vincere con i soli propri meriti battendosi fino alla fine con coraggio. Anzi, sconfiggendo perfino la sfortuna, un palo, una traversa e il proprio campione più grande al sessanta per cento. Chissà se e quanto di questo è stato senso comune di chi festeggiava. Istinto, inconscio, percezione indistinta però sì, certamente. Ed è un primo passo. I grandi sentimenti collettivi possono iniziare a cambiare anche così. Forza Italia, oggi, vuol dire un’altra cosa.

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