Centrosinistra e questione milanese

Cari lettori blogghisti, credo giusto fare avere anche a voi una nota che ho presentato oggi all’assemblea federale della Margherita

Milano-Italia. Centrosinistra, questione milanese e questione lombarda.
Breve nota (ovvero: come dotarsi di un metro)

Milano roccaforte elettorale del berlusconismo. Milano isola democratica in Lombardia nel referendum costituzionale. Sono due condizioni quasi estreme. Non in contraddizione. Sono vere tutte e due. Ma, per dare un giudizio serio sulla vicenda milanese e lombarda, bisogna capire il contesto, le dinamiche, entro cui sono state vere. Proviamo a riepilogare i punti fermi (a tutti noti, ma che nelle analisi ogni tanto spariscono): 1) Milano nel ’92-’93 è stata l’epicentro della grande crisi della prima Repubblica e il luogo del trionfo leghista (42 per cento alle amministrative del ’93); 2) Milano è stata nel ’94 la piattaforma di lancio di Forza Italia (circa il 40 per cento alle europee di quell’anno), roccaforte della più clamorosa novità politica degli ultimi decenni; 3) la Lombardia ha incarnato per oltre un decennio la forza del blocco politico-culturale di Lega e Forza Italia (variamente distribuite sul territorio), integrato da importanti presenze di Alleanza Nazionale e dei cattolici moderati (con il retroterra di Comunione e liberazione spostato su Forza Italia); 4) questo blocco ha mostrato il punto più alto della sua preponderanza alle elezioni regionali del 2000, quando Formigoni doppiò praticamente Mino Martinazzoli; 5) da allora la distanza abissale tra il centrodestra e il centrosinistra è andata riducendosi con ritmi e proporzioni diverse a seconda delle situazioni. (continua)


Quest’ultima è oggi la dinamica di fondo sulla quale occorre ragionare. Essa si è prodotta certo per effetto dello sgonfiamento del grande sogno berlusconiano alla prova del governo, ma anche perché l’opposizione ha saputo guadagnarsi, sul posto, una credibilità via via maggiore. E se l’è guadagnata in condizioni non certo invidiabili: a) la pratica assenza di una classe parlamentare di opposizione lombarda (il meccanismo dell’uninominale ne ha fatto quasi tabula rasa per tredici anni); b) l’ assenza di una sistematica attenzione della classe dirigente del centrosinistra “romano” verso i temi e le domande di Milano e della Lombardia.
È una dinamica che ha avuto andamenti diversi. Più visibili e promettenti quando il centrodestra si è presentato: 1) diviso (alle elezioni provinciali milanesi del 2004, con la vittoria di Filippo Penati), o 2) percorso da forti tensioni interne (alle elezioni regionali del 2005, con il voto leghista a Milano volto a “punire” Formigoni), oppure ancora 3) poco mobilitato al voto (nelle suppletive del 2004, con il successo di Roberto Zaccaria nel collegio di Bossi). Ha avuto invece – e comprensibilmente – effetti più contenuti quando il centrodestra si è presentato totalmente compatto e giocando fino in fondo il fattore B (la candidatura di Berlusconi) come nelle ultime elezioni politiche e amministrative milanesi. Dentro questa dinamica va giudicato dunque il passaggio di fase che Milano sta vivendo. E il ruolo che in tale passaggio stanno svolgendo le diverse forze politiche.

E questo per una ragione decisiva. Per evitare l’errore che Giovanni Bianchi ha recentemente indicato con una felice immagine ciclistica: considerare ogni volta la competizione su Milano come una Milano-Sanremo anziché come una faticosa gara a tappe; per poi spiegare ogni sconfitta con il fatto che a Milano “non c’è una classe dirigente all’altezza”. Le classi dirigenti vere, purtroppo, sono quelle che modificano il corso della storia, non quelle che lo invertono con la bacchetta magica. Nessun contesto politico e culturale è rovesciabile con una bella candidatura e una bella campagna elettorale  (basti pensare che quando lo stesso Massimo Cacciari si candidò alla presidenza della regione Veneto dovette cedere – vedi la forza della storia… – più di diciassette punti percentuali all’assai meno brillante e carismatico Giancarlo Galan).
La sconfitta delle elezioni comunali milanesi si colloca dentro questa gara a tappe. È vero che “si poteva vincere”. Lo abbiamo sperato (ragionevolmente sperato) tutti. Ma da una parte c’è stato un investimento formidabile di mezzi finanziari e di risorse simboliche. Dall’altra parte, la nostra, si è investito assai meno e sono anche stati commessi errori durante la campagna elettorale (beninteso: così come ne ha commessi l’avversario e così come il centrosinistra ne ha commessi nella campagna elettorale nazionale). Errori di varia natura, alcuni anche segnalati in anticipo e inutilmente: la scelta tardiva (un mese prima!) da parte dei Ds di presentarsi con l’Ulivo; la campagna di Fo contro Ferrante, che è andata spesso oltre lo spirito della competizione interna; un effetto smobilitazione dopo il risultato delle politiche in città (che non ha riguardato la Margherita); la scelta di Ferrante di dar vita a una sua lista anche nelle zone, che lo ha messo in tensione con i partiti nei quartieri. E altri ancora, di minore importanza. C’è chi insiste nel sostenere che con Veronesi in campo si sarebbe vinto, parodiando un po’ la discussione sul salvifico ingresso mancato di Rivera nel celebre secondo tempo di Italia-Brasile del ’70. Non si tiene conto (al di là delle effettiva disponibilità di Veronesi a candidarsi) del maggiore effetto astensione che si sarebbe verificato. Effetto che già si è manifestato con Ferrante, nonostante questi avesse vinto largamente le primarie. Effetto forse decisivo (72.000 voti in meno rispetto alle politiche) e che ha credibilmente riguardato sia l’elettorato più radicale sia l’elettorato più moderato.

Resta il fatto vero, ripeto, che si poteva vincere. Ma, è bene dirlo e saperlo, si poteva vincere esattamente come una squadra più debole (anche se ormai non più “materasso”) può vincere contro una squadra più forte se tutto “congiura” per il meglio. Non è successo. E non si è vinto. E non è una grande consolazione che nel suo ex giardino di casa Berlusconi abbia dovuto aspettare l’alba per sapere se ce l’aveva fatta. Ma non realizzare un’impresa difficile non è la stessa cosa che fallire. In tal senso mi permetto di esprimere un qualche stupore per avere ascoltato nella nostra scorsa assemblea federale un giudizio positivo sull’esito siciliano rispetto a un giudizio assolutamente negativo sull’esito milanese. E questo perché in Sicilia si è avuto un differenziale negativo dell’11,4 per cento, cui vanno aggiunti i 5,2 punti di Musumeci, per un totale del 16,6, rispetto a un precedente differenziale, nel 2001, del 22,5 per cento, forse ulteriormente riducibile considerato il 4,3 per cento di D’Antoni. A Milano si è avuto invece un differenziale negativo di 5 punti contro un precedente differenziale, nel 2001, di 16,5 punti (Albertini contro Antoniazzi + Milly Moratti + Di Pietro).
Insomma, appare singolare che il giudizio molto negativo riguardi là dove si è cresciuti di più (da –16,5 a -5) e quello positivo riguardi là dove si è cresciuti di meno (da -22,5 a -16,6; anche lì con precedenti vittorie o progressi locali). Questo solo per dire che, forse anche da parte di qualche superficiale osservatore milanese, sono stati dati per acquisiti degli scenari che non stavano nella realtà. Il fatto che la vittoria sia apparsa possibile è piuttosto una conferma della positiva dinamica di fondo alla quale ci siamo prima riferiti. Dinamica peraltro confermata dal fatto che per la prima volta da 13 anni a questa parte un consiglio di zona (a presidenza Margherita) sia stato vinto in città. Per capirsi: come popolazione siamo al doppio di Varese, e molto oltre Bergamo.
Ebbene, è sempre questa dinamica che si è espressa in forma visibilissima e confortante al referendum costituzionale un mese dopo. Il No ha vinto nella provincia di Milano, ma fuori dalla città ha perso. E’ stata cioè la città a tirare un risultato che ha sconvolto lo schema di lettura sul “nord tradito” dal centrodestra e rende ora difficile alla Lega la stessa proposizione del lombardo-veneto come entità politica. Insomma, la città di Milano, quella senza classe dirigente, ha regalato al paese un successo politico che segna un vero passaggio di fase. Non bisogna trascurare le interferenze “virtuose” sul risultato: la presa di posizione della Curia a favore del No, l’astensionismo della Compagnia delle Opere, il fatto che non fosse direttamente in ballo il fattore B. Ma è indubbio che per il cammino del paese e per la stabilità del governo il successo del No abbia un rilievo (e produca una sorpresa) perfino maggiore dell’insuccesso alle amministrative. E dietro il No, questo è il punto, non c’è un lavoro omogeneo di tutti i partiti. C’è il lavoro di soggetti sociali e culturali, come Libertà e Giustizia, le Acli, e un impegno costante della Margherita e dei suoi mondi di riferimento (di chi vi si è impegnato, naturalmente) in varie forme.

La sensazione oggi è che sia appena passata la fase in cui la crisi verticale della politica aveva consentito alla cultura della grande provincia di egemonizzare senso comune e mentalità della politica milanese. A Milano non c’è mai stata una simpatia per la partecipazione della borghesia degli affari alla politica. Nel dopoguerra l’accordo Costa-De Gasperi sancì anzi proprio una divisione di ruoli: la politica a Roma (capitale delle istituzioni politiche), a Milano (la capitale degli affari) l’economia. Ma nessuno aveva mai pensato, come è accaduto dal ’93 in poi con il rovesciamento di rapporti di supremazia culturale tra città e provincia, che fare politica fosse come dirigere un’azienda. L’ubriacatura ora sembra regredire. Il governo Prodi, con le scelte che ha fatto e sta facendo, in termini di provvedimenti e di presenze fisiche, sta aiutando questo passaggio di fase: il ritorno a una supremazia della migliore cultura urbana – sia scientifica, sia umanistica -, alla sua capacità espansiva verso l’intera area lombarda. Ed è su questo che bisogna scommettere (personalmente vorrei impegnare in questa direzione la leva università-ricerca-impresa).

E veniamo al ruolo della Margherita dentro questo passaggio. Come è noto, nel 2001, la Margherita ebbe nello stesso giorno (lo si noti) due risultati differenti: 15,5 per cento alle politiche; 10 per cento alle comunali (e 9 per cento nelle zone), che era credibilmente la sua cifra locale. Dopo quella data ha iniziato un faticoso e contrastato percorso di assestamento, che non può servire come alibi ma di cui sarebbe improprio non tenere conto. Un congresso che ha ingessato le responsabilità, la rapida crisi della luna di miele con l’elettorato laico e ulivista sulla base di scelte non solo locali, e poi limiti soggettivi del partito milanese hanno prodotto un dimezzamento dei consensi delle comunali alle elezioni provinciali del 2004, che generarono le dimissioni del sottoscritto (respinte, confermate e di nuovo respinte). Alle ultime politiche al Senato il partito ha preso, rispetto a quelle provinciali, 2,4 punti in più; in valori assoluti, il 118 per cento di voti in più. Certo, il meccanismo di voto e un aumento di quasi il 30 per cento dei votanti hanno spinto in su i numeri. Ma l’aumento c’è stato, e consistente. E sempre in questa occasione il rapporto tra Margherita e Ds, che in città alle provinciali era stato di uno a quattro, è diventato di uno a due. Quanto alle comunali, la questione è più controversa. Qui ci siamo presentati come Ulivo, per radicata convinzione e anche per forte incoraggiamento del partito nazionale. Ma la tardiva disponibilità dei Ds a scommettere sulla lista dell’Ulivo ha avvantaggiato la lista Ferrante, che sotto questo profilo va considerata a pieno titolo una porzione dell’Ulivo (non è riuscita a essere, infatti, lista di frontiera verso il centrodestra). Ciò ha ridotto il bacino elettorale complessivo. Nel quale la Margherita non ha brillato per le preferenze personali. Le concause sono molte. Ma, ancora una volta fare l’elenco rischia di essere poco utile. La vera ragione è che le persone in grado di raccogliere il numero di preferenze sufficienti in una competizione così allargata erano poche, in relazione a un elettorato poco strutturato. Su quattordici consiglieri eletti dieci sono ds o di area ds, quattro della Margherita o di area Margherita. Molto meglio è andata nelle circoscrizioni o zone, dove il rapporto tra gli eletti dei Ds e i nostri eletti, sempre dentro l’Ulivo, è di 1 a 1,4, a riprova di una costruzione di consensi nei quartieri più forte che a livello cittadino, dove contano assai più l’ampiezza delle strutture e della storia di partito o la notorietà personale (noi, per dare il maggiore spazio possibile ai nuovi, avevamo concordemente scelto di non candidare parlamentari).
Insomma, mi pare che si tratti di uno scenario con luci e ombre, difficile, faticoso, ma anche promettente; dentro una dinamica a sua volta difficile, faticosa, ma che sta portando verso esiti positivi e nella quale, se si valutano le vicende in una logica di sistema, si sono ottenuti importanti successi. Mi piacerebbe che venisse letta con il senso delle difficoltà affrontate, superate e di quelle che ancora bisogna impegnarsi a superare.

Nando dalla Chiesa
(presidente della Margherita milanese)

Assemblea federale di DL – la Margherita
Roma, 16 – 17 luglio 2006

 

 

 

 

 

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