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Amarcord. Scene da matrimonio
Lei aveva un vestito bianco crema con il velo portato da una o due damigelle, non ricordo bene. E qualche vago motivo floreale intorno alla fronte. Anche lui aveva un vestito crema. E la cravatta marrone, questo lo ricordo benissimo. Si sposarono in una chiesa del centro storico di Palermo ventinove anni fa. Lei era una ragazzina stupenda, si chiamava Emilia. E lui ero io, con dei baffoni neri che avevo fatto crescere prima da studente, con sopra gli occhialini alla Gramsci. Poi di nuovo da ufficiale dei carabinieri di leva, mandato nella Reggio Calabria dei “boia chi molla”, dove una faccia da ragazzino invitava la piazza a sputarti addosso. E i baffi aiutavano a sembrare più grandi. Non volevo sposarmi in chiesa. Mica per principio. Ma perché temevo di farlo per opportunismo sociale. Si convenne che non sarebbe stata una funzione vera e propria. Ma una cosa veloce, alla quale il prete non volle far mancare il conforto della sua sapienza tradotta in una predica colta e adatta ai tempi.
La chiesa era circondata da agenti e carabinieri dell’antiterrorismo. Allora ancora non mi rendevo conto della temperie né del pericolo che correvamo. Arrivai davanti alla chiesa con una 850 verde scura appositamente passata al lavaggio, dopo essere andato a cercare nel Belice del vino a buon mercato per la festa sul mare del giorno dopo. Il papà dello sposo, il generale, era felice anche se il figlio non si era tagliato i capelli come lui avrebbe voluto e come aveva richiesto che facesse ricorrendo a ogni tipo di mediazione parentale. Anche la mamma dello sposo era contenta. Era la seconda o terza volta che lo vedeva come piaceva a lei, in giacca e cravatta. Tra gli ospiti c’era un signore con i baffi (lui più sottili) che di lì a venticinque giorni sarebbe stato ucciso dai corleonesi di Totò Riina: era il colonnello Russo, già collaboratore del generale, ritratto in una foto del carnet con la giacca bianca della divisa da cerimonia e che la giovanissima sposa, deliziosa ingenuità, aveva scambiato per un cameriere.
Quando la macchina fotografica del fratello della sposa scattò a vuoto dall’altare facendo un piccolo botto, tutti temettero un attentato e ci fu un po’ di subbuglio. Poi si rise. Ma c’era paura, in quel periodo. E infatti anche la madre dello sposo, di lì a sei-sette mesi, se ne sarebbe andata uccisa dalla paura. Uno dei pochissimi infarti femminili di cui abbia saputo nella mia vita.
Dopo la messa passai tutto il tempo a baciare signore sconosciute che entravano nel patio della chiesa e poi di nuovo signore che uscivano, senza potere nemmeno toccare la torta, che mi dissero buonissima. La sera dopo facemmo la festa vera, nella villa sul mare di Sergio, a Capaci-Carini (già…), con fantastiche sarde alla griglia e il vino preso nel Belice. Ne sarebbero venuti fuori due ragazzi che oggi impreziosiscono il mondo, Carlo Alberto e Dora. In fondo anche questo possono essere i matrimoni. Perché ho raccontato tutto questo? Perché questo è il mio diario. E soprattutto per fare gli auguri alla stupenda ragazzina di allora.
Nando
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