Gaber, evitiamo il culto dell’anticonformismo

(l’Unità, 2 agosto 2006) – Migliaia di persone per ricordare con nostalgia Giorgio Gaber. E’ successo a Viareggio negli scorsi giorni per il Festival intitolato al grande artista milanese. Le pagine specializzate dei quotidiani hanno già parlato dell’evento e dei suoi ospiti. Ma a chi c’era e ha provato a captare i segni e le atmosfere, a decifrare i sentimenti collettivi, viene spontaneo chiedersi le ragioni per cui in tanti possano ritrovarsi a ricordare, a distanza di anni, un personaggio che certo non fu divo televisivo

e nemmeno cantante da stadio. A ricordare con un simile coinvolgimento emotivo un personaggio che, anzi, scelse a un certo punto, proprio mentre la televisione definiva i nostri orizzonti, la direzione contraria: quella di non essere né divo televisivo né cantante da grandi concerti. E che batté con coraggio solitario la strada del teatro-canzone.

I tempi, ecco, i tempi. Forse sono questi tempi che ci mettono alla prova, che di nuovo ci costringono a non avere certezze, che ci strattonano l’intelligenza e ci dicono che il mondo non è diviso e non si può dividere in due, che se per un po’ il farlo a fette come una torta ci è apparso di recente giusto e verosimile – almeno in casa nostra – questa non è invece che una pigra illusione, ecco, sono questi tempi che ci ridanno la misura del Gaber artista. Del Gaber che visse la sua vita come un viaggio senza arrivi e traguardi. Un viaggio che non è tale solo perché, vivendo, incontri e cambi e perdi e conquisti nuovi compagni di strada. O perché vedi nuovi panorami, colori e protagonisti. Per lui il "viaggio" della vita fu una esperienza più complessa e affascinante. Perché si misurò sempre con i segni, le sfumature, le parole, le mode, i paradossi che la storia, in ogni suo passaggio, gli squadernava davanti. Perché ebbe voglia di parteggiare, eccome. Ma si ritrasse, di nuovo eccome, dalle conseguenze che il parteggiare implica per la libertà di pensiero, per il principio di ironia. Si ritrasse con fastidio, leggero o caustico, dall’idea prediletta allorché questa diventava maggioranza o sembrava diventarlo. Sapeva bene che un’idea vitale può, tra sofferenze e asprezze, diventare realtà larga e condivisa, perfino andare al potere; e che nel momento in cui questo accade essa perde una parte della sua vitalità, cede spazio alla retorica fino a venire consumata dal conformismo. Scelse di stare con le idee finché erano vitali. E di rivalutarne il senso quando, dopo l’onda montante, subivano sconfitte cocenti. Come dimenticare il Gaber, già amato dai contestatori, che inizia a farsi beffe dei tic, delle retoriche, delle bolsaggini mentali degli adoratori del marxismo? Come dimenticare le critiche che ne ebbe? il perenne sospetto che lui, proprio lui, stesse passando dall’altra parte o facesse comunque il gioco della reazione? E come dimenticare, per converso, il Gaber che, a comunismo agonizzante, con il Muro già franato tra i brindisi dei giovani berlinesi, canta quello struggente capolavoro che è “Qualcuno era comunista”, spiegando che cosa fosse davvero la famosa "peculiarità" del comunismo italiano, ossia che qualcuno era comunista anche per non stare con il lezzo del sottopotere, e "perché Berlinguer era una brava persona"?

Gaber era così. Viaggiava attraverso la vita sua e degli altri. Fragile, senza rete. Senza lo scudo dell’ideologia o della religione. Senza un mito forte e rigeneratore alle spalle, fosse la società rurale di Pasolini o la Resistenza di padre Turoldo, per parlare di due altri e diversi "viaggiatori". E senza subire il fascino illuminista dell’uomo che può andar da solo ovunque perché onnipotente, quel fascino tanto spesso rimproverato dai cattolici agli spiriti laici più liberi. Cercando di non privare mai delle ali (una delle sue immagini più belle e profonde) il proprio pensiero di fronte ai rivolgimenti e alle increspature del mondo. Parlando dalla sua cattedra, il teatro, portandosi dentro la speranza – più volte dichiarata – che anche grazie alle sue parole la gente cambiasse. Usando anche gli oggetti più quotidiani (la crema per le mani) o le pratiche più banali (lo shampoo, già, il fantastico schampoo…) per simulare, creare metafore terribili e divertenti.

Forse, ho pensato a Viareggio, questo suo viaggio non è stato capito fino in fondo. Perché tutti apprezzano oggi di lui la somma virtù dell’”anticonformismo”, fino di nuovo a fare su di lui altro conformismo. Ma io nel risentire l’altra sera il suo "far finta di essere sani" vi ho trovato qualcosa di molto più grande di ciò che vi trovavo da giovane. Ho risentito Gaber con la mente di chi ha fatto anche lui un suo percorso nella società, nella politica, negli affetti. Ho misurato nuovamente le parole e l’impasto intellettuale delle cose da lui scritte con Sandro Luporini. E ho sentito crescere dentro di me un desiderio. Anzi un bisogno. Quello di vivere in una società dove tutti sappiano viaggiare e scrutare e capire. Lottare e irridere. Criticare ed elogiare la stessa cosa o persona o idea, a seconda del contesto. Interrogarsi nell’incertezza e schizzare in avanti come lancieri in guerra. Scegliere per raccontare il mondo ora i colori forti ora tutte, ma proprio tutte, le tonalità del grigio. Volare nei cieli e camminare rasoterra. Fare insomma tutto ciò che è necessario perché nulla si cristallizzi. Perché non ci sia un’appartenenza che ci rallenta l’intelligenza o ci soffoca la voce. Per non metterci mai al di sotto o al di sopra di ciò che ci accade intorno. Forse quelle migliaia di persone che si sono ritrovate intorno al nome di Gaber e al suo teatro-canzone hanno sentito, ogni persona nelle sue forme e secondo la sua sensibilità, lo stesso desiderio. Per questo alla fine Giampiero Alloisio, il cantautore genovese organizzatore umile e intelligente del festival, poteva commentare da buon minimalista "nell’insieme è andata bene". E’ stato un segno dei tempi. Una domanda di libertà critica rivolta a chi una sera domandò dissacrante ai giovani che riempivano il Lirico di Milano: "E con tutte le libertà che avete volete anche la libertà di pensare?".

 

Leave a Reply

Next ArticleLe mie carte. Lavorare è bello