Lo sponsor si fa strada

(l’Unità, 19 agosto 2006)Fare nascere via Ferrarelle, piazza Barilla, corso Fiat. Non in una città di cartapesta allestita per fiction televisive. Non in un gioco pubblicitario o in un nuovo monopoli per bambini. Ma a Cleto. In un paesino di millecinquecento anime scarse. A venti minuti dal mar Tirreno, a 250 metri di altezza, in provincia di Cosenza. L’idea, lo ricordiamo a chi in questi giorni ha giustamente tenuto il suo sguardo fisso sulla scena internazionale, l’ha lanciata il sindaco di Cleto.

Il quale, da buon funzionario dell’Inps, non è un patito del privato o delle privatizzazioni. Ed è stato eletto in una lista civica improntata ai principi della socialità. Ma si è trovato di fronte a una via apparentemente senza uscita. La dichiarazione di inagibilità di tutti gli edifici pubblici. A partire dal municipio. Per arrivare a tutte le scuole: materna, elementare e media. E ad altri due edifici di proprietà comunale, in attesa di diventare asilo e biblioteca. Provate a fare i sindaci di uno striminzito comune, lasciato indebitato da lontane amministrazioni, e a trovarvi di colpo senza municipio e scuole, con la prospettiva che il paese si spopoli ancora di più dal prossimo autunno. Che cosa fareste?

Amerigo Cuglietta, questo il nome del giovane sindaco, ha lanciato la proposta. Qui soldi in cassa non ce ne sono. Ne chiediamo pochi. Quanti servono per recuperare l’agibilità, per dare decenza di vita a millecinquecento persone. E pur di averli, di recuperare gli standard di una dignitosa esistenza collettiva, mica per avere le sale congressi o i cinema multisale, siamo disposti senza pregiudizi a rivolgerci ai privati. Se ci aiutate vi regaliamo, per dieci, venti anni, il nome di una piazza o di una via, vi intitoliamo il palazzo municipale. Pare che qualcuno, di fronte alla pubblica offerta, abbia deciso che sì, ci si può pensare. Ma il fatto, in un’Italia impegnata in ben altri pensieri, merita qualche piccola ulteriore riflessione. Perché un interrogativo ci martella la fantasia. Quale sta diventando il rapporto tra l’uomo e la merce, tra l’istituzione e la merce? In un profetico libro di tanti anni fa Michele Serra ipotizzava ironicamente che si potesse giungere in futuro a trasformare ognuno di noi in testimonial di qualche merce. Che tutti, in quell’ipotetico futuro, saremmo stati non consumatori ma prolungamento di un marchio; di una bevanda come di un calzino. E che la nostra identità sarebbe derivata da quel marchio. Ebbene, quel futuro si è dimostrato non troppo ipotetico. Al mare si sono viste e si vedono sobrie o divertenti magliette della Uno o della Coca Cola addosso a splendide ragazze o ad attempati signori, a bambini gioiosi o a languidi immigrati. Ovunque magliette Adidas o magliette con il nome di questo o quel calciatore, con relativo sponsor; il quale dunque diventa grazie alla stessa maglietta, lo sponsor di due esseri umani (uno pagato, l’altro che paga). E lasciamo stare lo sport, trasformatosi in un’immensa chincaglieria di marchi, di ragioni sociali, di denominazioni ad origine controllata. O i vorticosi giochi di scatole cinesi della pubblicità che si rincorrono via etere.

Fatto sta che trovare uno sponsor è diventata la prima parola d’ordine quando si medita, senza nemmeno troppe ambizioni, di allestire qualcosa di interessante sul piano culturale e artistico (meno sul piano civile, si sa in partenza che non tira). Mentre, a loro volta, le aziende non incontrano troppi intoppi quando decidono di trovare i loro disciplinati testimonial. Una comoda borsa di una casa editrice con cui giungere ogni giorno in spiaggia. Il cappellino con visiera o l’ombrello della casa automobilistica o del grande magazzino. Ma anche la pagina intera del quotidiano preferito, il cui lettore diventa non solo il punto-contatto (come è ovvio) ma anche il testimonial suo malgrado del marchio pubblicizzato ogni volta che apre bene il giornale dal lato giusto in treno o in metropolitana. Non c’è nulla di scandaloso in tutto ciò, sia chiaro. E’ una specie di scambio. Mi piace la borsa, mi piace il cappellino, mi piace la maglietta, mi piace l’agenda. La sensazione che però ognuno sia effettivamente un po’ (al cinque per cento? al venti per cento?…) un marchio; il fatto che per indicare una persona lo si possa fare ricorrendo alla pubblicità portata sulla maglietta o sulla borsa anziché al colore dei capelli, alla statura, all’accento o all’andatura, tutto ciò descrive un mondo assai più semplice e sbrigativo ma anche sempre più spersonalizzato.

Ora arriva il momento dei paesi e delle città. Verrebbe da dire “speriamo” se sapessimo che questo servirà a Cleto ad avere le scuole e la biblioteca e gli uffici comunali. D’altronde, in teoria, non si vede perché una via anziché essere dedicata a uno sconosciuto scrittore locale non possa essere dedicata al cognome (quello del fondatore di un’impresa, che spesso si fissa nel marchio) di chi ha dato lavoro a migliaia di persone. Resta però una sensazione inquietante. Di essere attesi da un mondo dove forse non saremo più dei numeri come nella società a una dimensione; dove non sarà più il numero di matricola a dire chi siamo, ma un più colorato marchio, riconducibile a suggestive pubblicità e dunque, tutto sommato, tanto carino e grazioso, associato a una scena d’amore, a un bambino felice o a un cavallo bianco che galoppa sulla spiaggia.

Per questo, per questo oscuro e ingiustificato presagio, ben consci che un edificio alla Plasmon o alla Fanta in fondo glielo si può pure intitolare, facciamo il tifo perché i soldi che servono a Cleto giungano dalle casse pubbliche o da generosi mecenati. E proprio perché facciamo il tifo, ci chiediamo come mai, dopo che la notizia è andata sui giornali nazionali e locali, nessuno abbia chiamato il sindaco dalla Regione Calabria per chiedergli semplicemente “Sindaco, ma quanto ci vorrebbe?” o per comunicargli “La prossima settimana (non si dice ‘domani’) le mandiamo un tecnico”. Siccome facciamo il tifo per chi difende le cause difficili, ci amareggia sapere che le stesse lettere del sindaco Cuglietta agli uffici regionali siano rimaste senza risposta. Certo, l’estate; certo, il Libano. Anche i funzionari calabresi hanno il diritto e il dovere di guardare altrove. Ma c’è una ragione ancora più personale che ci porta a dispiacerci e a sperare che qualcuno dall’alto intervenga. Ed è che in tutti questi anni abbiamo avuto modo di apprezzare, anche dalle pagine di questo quotidiano, la strenua battaglia condotta dal presidente della Regione Calabria Agazio Loiero contro il verbo leghista. Non solo contro la secessione, ma anche contro il federalismo dei “venti stati”. Abbiamo visto il presidente Loiero battersi contro quel federalismo in nome della eguaglianza dei diritti delle diverse regioni d’Italia. Perché proprio a norma di Costituzione, egli argomentava, non può essere la ricchezza di un territorio a determinare le opportunità e i diritti dei cittadini italiani. Perché le tasse si pagano anche nel nome del principio (solidale) della redistribuzione.

E dunque, chiediamo al presidente (che sicuramente i funzionari non avranno sensibilizzato per colpa dell’estate e del Libano), i bambini di Cleto non hanno diritto a una loro scuola materna o elementare solo perché il comune è piccolo e povero e non ha i soldi per bastare a se stesso? Vedi per che passi, o per che silenzi, si può arrivare a fare di un antichissimo paese una specie di vetrina da supermarket… Ma non ci sentiamo tutti un po’ a disagio?

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